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Giovedì 30 maggio 2019, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno risposto negativamente al quesito sollevato dalla sezione IV con ordinanza di rimessione n. 8654/2019 circa la “liceità” della commercializzazione di cannabis sativa L.

Più precisamente, le S.U. sono state chiamate a dirimere la seguente questione: “se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell’art.1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa”.

Nella nota informativa diffusa nella giornata di ieri, si legge che “la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.

In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza, si ritiene utile svolgere qualche riflessione con l’auspicio che possa essere utile agli operatori del settore.

Procediamo con ordine, cercando di sintetizzare al massimo.

Il 14 gennaio 2017 è entrata in vigore la legge 242/2016 recante “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”.

In molti hanno ritenuto che la normativa in questione consentisse la commercializzazione di tutti i prodotti derivati dalla canapa, ivi compresi quelli inseriti nella tabella II allegata al d.P.R. n. 309/1990 (cioè foglie e inflorescenze, olî e resine), purché recanti un contenuto di THC non superiore allo 0,6%.

Parte della giurisprudenza ha avallato questa interpretazione del testo normativo, sottolineando come la commercializzazione delle foglie, delle inflorescenze, degli olî e delle resine – purché contenenti una percentuale di principio non superiore allo 0,6% – sia perfettamente coerente con la finalità della L. 242/2016, che mira a promuovere  la filiera della canapa in senso ampio.

Si è però formato un opposto orientamento giurisprudenziale diretto invece a escludere la liceità della commercializzazione dei prodotti summenzionati, essenzialmente sul presupposto che la L. 242/2016 disciplina esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall’art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione al dettaglio dei prodotti costituiti dai fiori, dalle inflorescenze, dagli olî e dalla resina, attività che rimarrebbe perciò assoggettata alla disciplina del Testo Unico sugli Stupefacenti[1].

Le Sezioni Unite hanno aderito a questo secondo orientamento, sancendo che le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, “salvo” – si badi bene – “che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.

La commercializzazione di fiori, inflorescenze, olî e resine potrà dunque proseguire, nonostante la pronuncia delle Sezioni Unite, purché i suddetti prodotti abbiano un contenuto di THC talmente basso da ritenersi privi di efficacia drogante. In questo senso, mi pare contestabile che una sostanza contenente THC non superiore allo 0,6% possa ritenersi “drogante”, per cui davvero tutto potrebbe rimanere come prima.

Ma è davvero così? Temo di no. La sussistenza o meno della “efficacia drogante”, infatti, presta il fianco all’interpretazione ed espone il commerciante, oltre ai controlli – che sicuramente si faranno più insistenti, a discapito delle casse dello Stato –, alla discrezionalità di Procure e Giudici, con il concreto rischio di sperequazioni a livello nazionale.

Tale situazione di incertezza e i rischi penali ad essa connessi [2] rappresentano un grave deterrente per il commercio della cannabis light. Con buona pace della promozione della filiera della canapa e della Legge 242/2012.


[1] Per una disamina più completa degli argomenti a sostegno degli opposti orientamenti, rinvio alla lettura dell’ordinanza di rimessione della sezione IV.

[2] l’art. 73 del d.P.R. 309/1990 prevede la pena della reclusione da 2 a 6 anni, consente l’arresto in flagranza e l’applicazione di misure cautelari personali e reali; è poi tutt’altro che inverosimile immaginare la possibile contestazione, ai danni dell’attività di impresa finalizzata alla vendita di fiori, inflorescenze, olî e resine,  dell’ipotesi associativa finalizzata al traffico di stupefacenti di cui all’art. 74, punita con la reclusione non inferiore ai 20 anni per i soggetti apicali e non inferiore ai 10 anni per i meri partecipanti.

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