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Il sostegno ai più fragili, ai poveri, sta diventando davvero “un atto discrezionale e paternalistico” come scrive Chiara Saraceno (Repubblica, 11 febbraio)? Alcuni dati sembrano confermare questa tesi: crolla il fondo per le politiche sociali, vengono azzerati il fondo per la non autosufficienza, il fondo inclusione immigrati e quello per i servizi all’infanzia. Nell’insieme, gli stanziamenti che sostengono il welfare calano del 78,7%: con il restante 20% i Comuni devono fare fronte a problemi sociali e di indigenza che, nel frattempo, sono aumentati. 
Non si tratta solo di un problema finanziario. La legge 328 del duemila, in una logica di welfare mix, riconosceva il ruolo fondamentale del terzo settore come uno dei pilastri  della  programmazione, progettazione e gestione della  rete di servizi integrati alle persone e ai territori.  Ma il Governo non sembra concepire l’assistenza come un diritto di cittadinanza, esigibile secondo criteri universalistici e non discrezionali: nel decreto “mille proroghe” non solo ripropone la social card (il cui fondo è rimasto largamente non speso a causa dei suoi criteri di erogazione),  ma inoltre  delega, nei comuni sopra i 250.000 abitanti, la distribuzione della stessa agli “enti caritativi”, escludendo l’Inps.
Questo approccio coinvolge anche alcuni enti locali: il Sindaco di Roma Alemanno, con il protocollo d’intesa del 15 dicembre 2010,  ha delegato la totale gestione del “piano nomadi” alla Croce Rossa Italiana. Ma l’obiettivo del protocollo appare ben più vasto, comprendendo tutte “le attività di supporto al disagio sociale ed all’aiuto alle persone che versano in situazione di difficoltà” (art.2 del Protocollo d’intesa). Per stessa ammissione della CRI,  la gestione della Sala Operativa Sociale (SOS) del Comune di Roma è la condizione indispensabile per realizzare questo progetto. Se ciò accadesse, la CRI di fatto priverebbe di potere in tali materie l’Assessorato e il Dipartimento alle politiche sociali del Comune di Roma, con la prospettiva della perdita di controllo pubblico sulla spesa e del totale arbitrio circa la definizione delle strategie d’intervento. Questo eventuale cambio di gestione del SOS cittadino rappresenterebbe inoltre l’estromissione del Terzo Settore: storicamente la Sala Operativa Sociale è stata gestita dagli operatori della cooperazione sociale,  portatori di un’esperienza ormai decennale.  In questo modo la CRI, da preziosa organizzazione per interventi  umanitari e di emergenza, si trasforma in ente di gestione di servizi, in sostituzione di un articolato sistema di interventi sociali gestito dal terzo settore.
Queste scelte vanificano le idealità contenute nella legge 328 e mettono in discussione la  stessa sopravvivenza di un welfare già malandato, rispondendo alla sola volontà politica di ridurre il peso di un terzo settore giudicato troppo autonomo. L’interesse dell’Amministrazione sembra orientata ad avere pochi interlocutori di grandi dimensioni e a costruire un sistema di relazioni più  funzionale a garantire il consenso. La capacità critica e l’indipendenza del terzo settore vengono percepite  come un problema mentre si nega il valore di un sociale basato sulla capillarità dell’intervento, realizzato spesso da piccole organizzazioni, legate strettamente alla dimensione territoriale. Una dimensione diffusa e articolata sul territorio  che costruisce  sinergie, moltiplica risorse, riduce i costi sociali.
Se una qualche attenzione dell’opinione pubblica esiste sulla drastica riduzione  delle risorse, sul  disegno complessivo di smantellamento globale di un sistema e della filosofia che sorregge la legge nazionale 328, c’è troppo silenzio.  Provano a prendere parola i lavoratori, le organizzazioni del terzo settore, i municipi e i cittadini/utenti organizzati nel “Roma Social Pride” e nel comitato napoletano “Il welfare non è un lusso”: decisi a manifestare tutto il dissenso possibile con mobilitazioni locali, in vista di una manifestazione nazionale che rimetta in agenda il welfare e i diritti sociali.