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La condizione di indecenza e di perdurante emergenza delle patrie galere è ampiamente documentata ed è stata ormai denunciata in ogni contesto. Inchieste parlamentari, rapporti delle Ong, corti nazionali e internazionali ed anche il Presidente della Repubblica fotografano, per usare appunto le parole di Giorgio Napolitano, “una realtà che ci umilia in Europa”. Anche il governo Berlusconi ne aveva preso atto, dichiarando il 13 gennaio del 2010 lo “stato di emergenza nazionale” delle carceri, prorogato fino al 31 dicembre 2011 con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. L’emergenza è dunque ufficiale. Ma come se ne esce?
Alcuni interessanti spunti vengono dal libro, curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Luca Zevi, “Il corpo e lo spazio della pena. Architettura, urbanistica e politiche penitenziarie”. Pubblicata da Ediesse, questa raccolta di saggi prova a riprendere il filo del dibattito, interrotto da tempo, sull’architettura penitenziaria, e sulla sua relazione con il senso e la quotidianità della pena detentiva.
Il tema dell’architettura penitenziaria è oggi impellente poiché la principale risposta del governo all’emergenza sovraffollamento è il piano straordinario di edilizia penitenziaria. Per questo piano sono stati recuperati oltre 600 milioni di euro, nonostante la grave crisi finanziaria del paese. Il mattone prima di tutto, dunque. Ma per costruire cosa? Nessuno lo sa. Previsioni di costi e tempi del tutto irrealistici (i 9.150 nuovi posti andrebbero costruiti entro la fine del 2012, e le strutture dovrebbero avere tutte lo stesso costo, come i prodotti al supermercato) lasciano di fatto tutto nell’ombra. Ma soprattutto non è chiaro quale sia l’idea di carcere, e prima ancora di pena, che sta dietro a questo imponente ampliamento del nostro sistema penitenziario, come se questo non avesse importanza. E invece importa, come si comprende dalla lettura del libro.
Pensare la pena è precondizione necessaria per pensare il carcere, eppure molti dei contributi raccolti dimostrano come da molti anni il nostro sistema penitenziario non incarni più alcuna idea della pena. Tanto sul piano architettonico quanto su quello normativo le nostre carceri, chiamate a rispondere alle più diverse emergenze, sono diventate meri contenitori di corpi, incapaci di progettualità. In un simile contesto, costruire nuove carceri per rispondere al sovraffollamento può aver senso, ma è questo contesto che va messo in discussione. Anzitutto perché in queste condizioni è inutile costruire nuove prigioni. Un contenitore che viene riempito troppo velocemente, o vuotato troppo lentamente, è destinato a saturarsi, qualunque siano le sue dimensioni. E poi perché un’idea della pena e del carcere è possibile e necessaria, e a dire il vero è anche imposta dalla Costituzione. Sembra difficile immaginare un “cosiddetto senso della pena”, leggendo il bel saggio di Adriano Sofri, che descrive un carcere iniquo e ottuso, indifferente alle sue stesse regole. Eppure su questo il libro è ricco di spunti. Dall’idea di un carcere “responsabilizzante” anziché paternalista, descritta da Mauro Palma, al “carcere della riforma”, come emerge da diversi saggi, ancora atteso a ormai 35 anni dalla riforma stessa; all’idea infine di un “carcere della dignità”, come ci è richiesto dalle norme internazionali.
Anche su questi temi il governo Berlusconi ha fallito, ma queste indicazioni, e l’urgenza dei problemi che richiamano, restano centrali per la nuova ministra.