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Il carcere della cittadina di Haarlem, a pochi chilometri da Amsterdam, è un edificio antico a mattoni rossi, situato nel bel mezzo dell’abitato. Domina da lontano l’enorme cupola, costruita secondo il modello del “panoptikon”: all’interno tutte le celle convergono verso un’unica postazione di sorveglianza, al centro dell’anfiteatro. Il “panoptikon” è il simbolo del risvolto più afflittivo del carcere. L’essere esposti al controllo visivo totale, senza più spazi intimi e personali significa la condanna alla “perdita del sé”, per chi varca le soglia di quelle mura. Questo sinistro retaggio della vecchia costruzione pare però decantato, ormai consegnato alla storia: nelle parole del direttore, secondo la più pura ottica manageriale, risalta solo “l’onore e l’onere” di gestire un carcere protetto come monumento nazionale, dunque non adattabile a criteri più moderni ed umani. Quanto ai carcerati, difficile interrogarli in proposito. Quando sono entrata nel carcere, alle dieci di mattina, le celle erano tutte vuote: i detenuti sono occupati tutto il giorno in varie attività (rientrano in cella solo per mangiare e dormire). Nell’enorme spazio sotto la cupola un gruppo era impegnato in una partita di pallavolo, che non è stata interrotta al nostro passaggio. La visita, organizzata dal nostro Ministero di Grazia e Giustizia, non era solo destinata a conoscere le condizioni di detenzione di Haarlem. Il direttore, van Putten, è anche un dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria olandese (la DJI): insieme alla signora van Gemert, anch’essa funzionaria della DJI, sono stati in grado di offrirci un panorama completo della politica carceraria olandese. I dati che subito ci vengono sciorinati sono significativi: i detenuti nelle prigioni olandesi sono attualmente 14.000, su circa 15 milioni di abitanti. Un tasso simile a quello italiano, rapidamente cresciuto, fino a raddoppiare, nell’ultimo decennio. Dunque anche l’Olanda, il paese che ha sempre cercato di contenere l’approccio penale a favore di politiche di Welfare (il più avanzato d’Europa) è stato investito dal vento della “tolleranza zero”? Segnali non mancano in questa direzione. Più detenuti in carcere non significano più reati commessi, bensì pene più lunghe. Ad esempio in casi di reati gravi compiuti da minorenni, nella fascia d’età da 16 a 18 anni il tempo massimo di detenzione è stato prolungato da 6 a 24 mesi, ed è facilitato il passaggio dai tribunali minorili alle giurisdizioni correzionali. L’affollamento dei penitenziari è in parte dovuto alla maggiore carcerazione delle fasce più giovani della popolazione, spesso appartenenti alle numerose minoranze di immigrati; ed anche alla svolta punitiva della magistratura che impone di scontare condanne molto brevi (poche settimane) per la piccola criminalità: in omaggio al “bisogno di sicurezza” della popolazione, sostengono i nostri interlocutori. Il penitenziario di Haarlem è un buon esempio del melting pot etnico carcerario. “Qui sono rappresentate ben 45 nazionalità diverse”, ci dice van Putten, allargando rassegnato le braccia. La gestione è all’insegna del proverbiale pragmatismo nordico: si facilita l’assunzione di guardie di origine immigrata e si fanno ai detenuti corsi intensivi di inglese ( che in Olanda è la seconda lingua parlata da quasi tutti, senza confini di classe, di istruzione, di etnie). Gli olandesi “doc” sono ad Haarlem solo un terzo, il doppio gli immigrati, divisi equamente fra legali e clandestini. I reati più comuni sono quelli legati al traffico di droga, molti arresti avvengono al grande aeroporto internazionale di Skjphol. “Molti di questi “trafficanti”, fermati con qualche chilo di eroina o cocaina, sono solo immigrati senza permesso di entrata , a volte donne, che col narcotraffico non hanno mai avuto niente a che fare. La droga è una garanzia di sicurezza economica per sopravvivere alle dure condizioni della clandestinità”, ammette la signora van Gemert. L’ennesima riprova che la proibizione della droga e la conseguente repressione sono un mezzo universale di contenimento carcerario della marginalità sociale, in Olanda quasi esclusivamente rappresentata dagli “illegali”: che sono rigorosamente esclusi anche dai permessi e dai programmi di semilibertà cui accedono gli olandesi e i “legali”. Il “giro di vite” repressivo è innegabile, tuttavia la politica penale e carceraria olandese mantiene ancora caratteri liberali. I giudici sono più severi, ma tendono a privilegiare le sanzioni alternative, quali la restituzione del denaro o il lavoro volontario a vantaggio della vittima o della comunità. Sono numerosi anche i programmi di reinserimento sociale, e i progetti di prevenzione della criminalità giovanile, che cercano di coinvolgere le comunità locali. Le condanne sono più dure, ma ancora contenute: 4 o 5 anni di carcere sono una pena “lunga”. Tutti i detenuti lavorano e dopo la sentenza definitiva possono ricevere le visite senza sorveglianza delle mogli o delle fidanzate, una volta al mese. “Per preservare le loro relazioni affettive”, spiega il direttore. Anche il programma di costruzione di nuove prigioni, ha un risvolto “umanitario”: il sovraffollamento non esiste perché è considerato diritto inviolabile del detenuto avere una cella tutta per sé. Il personale carcerario è contenuto nel numero, composto da civili, dipendenti della DJI. La divisione gerarchica tra addetti alla custodia e al trattamento è indicativa di una “filosofia” del carcere, volta al recupero. I compiti di sorveglianza sono affidati ai nuovi assunti: solo dopo un periodo di formazione si diventa prison officers, incaricati del trattamento, insieme ad educatori e assistenti sociali esterni. Nel modernissimo carcere di Yissel riesco a parlare con due detenuti: Alex, e Manuel, originario delle Antille olandesi. Dicono di star bene, anzi Manuel afferma che le prigioni olandesi sono le migliori di tutte. L’immagine del paradiso carcerario assomiglia ad un incubo, penso tra me. Guardo Manuel e capisco che anche gli incubi sono un lusso dei liberi.