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Anche quest’anno l’International Narcotics Control Board (Incb) ha pubblicato il consueto Rapporto sulle droghe. Quale sia il «taglio», ce lo dice il presidente Emafo già nella presentazione, con una affermazione lapidaria: «l’idea che la legalizzazione potrebbe risolvere il problema della droga nel mondo è contraria all’evidenza storica». Davvero una riflessione intensa, a dieci anni di distanza dalla «Sessione speciale sulle droghe» delle Nazioni Unite (Ungass), che nel 1998 prevedeva «l’eliminazione o significativa riduzione delle coltivazioni di coca, oppio e cannabis entro il 2008».
Che la previsione del 1998 continui ad essere una divertente barzelletta lo si capisce dando uno sguardo al mercato delle droghe illegali. Anche quest’anno, infatti, non apprendiamo nulla di nuovo. Per chi soffre d’insonnia, può essere utile un’attenta lettura della ridondante seconda parte del Rapporto. Per gli altri, bastano forse due righe.
Ridotta all’osso, l’analisi del Board sul traffico, l’offerta e il consumo ci dice che la cannabis è sempre la sostanza illegale più apprezzata del pianeta, seguita dalla cocaina e dalle anfetamine. Gli Usa sono il paese con i tassi di consumo più alti al mondo, mentre in Europa sono gli italiani e gli spagnoli ad apprezzare maggiormente queste sostanze. Come sempre, però, non è dato sapere quali siano i reali modelli di consumo e le carriere dei consumatori; così come non si dice nulla su come sono state elaborate le informazioni dei singoli paesi. Ci si limita ad un invito a rispettare i tempi di consegna delle rilevazioni nazionali.
Preso atto di questo, non possiamo tuttavia tacere alcune timide aperture del Board. Soprattutto nella prima parte del Report, pensata per l’approfondimento di temi «attuali». La novità è che perfino l’Incb si è finalmente accorto che le Convenzioni internazionali non impongono una politica unilaterale in materia di droghe, ma «definiscono soltanto degli standard minimi» e dunque dovrebbero lasciare agli stati aderenti margini di discrezionalità nella definizione delle medesime politiche. Pare ovvio: non si discute il modello repressivo/punitivo (evidentemente al di fuori degli «standard minimi»); e neppure l’equazione «consumo uguale reato». Ma dati i tempi, non è cosa da poco sentire la denuncia del Board per il ricorso a pene molto diverse per un medesimo reato, soprattutto in tema di possesso per uso personale.
Così dicendo, l’Incb si appella allora al principio di proporzionalità, declinato sostanzialmente in tre punti: l’azione penale non può essere arbitraria; deve subentrare soltanto per tutelare un interesse «superiore»; deve essere adeguata allo scopo. Una descrizione che richiederebbe ben altri approfondimenti, ma sicuramente accettabile, se non altro perché insperata. Soprattutto laddove vi è un esplicito richiamo ad abbassare il tiro contro i reati di minore entità o dove si dice che l’eccessiva arbitrarietà colpisce quasi sempre (e soltanto) i consumatori, per di più identificati sulla base di tratti etnici o culturali e droga di consumo. Ma non facciamoci troppe illusioni. Primo, perché non vengono fatti nomi e cognomi, a differenza di quanto avviene per chi propone ed applica politiche alternative al modello repressivo/punitivo. Secondo, perché occorre aspettare i fatti, dopo le parole. E l’Incb non indica alcuna strada da seguire. Terzo, perché in molti paragrafi del Rapporto 2007 le parole del Board sono ancora frutto degli isterismi dei tempi migliori.
Degno di nota, in questo senso, è il «contro-rapporto» dell’International Drug Policy Consortium (cfr. la scheda accanto), dove si fa notare che all’elogio della proporzionalità non segue il rispetto dei diritti umani. Ad esempio, nell’uso reiterato del termine abusers per definire i consumatori, che non soltanto esprime un vizio ideologico, ma soprattutto ha un evidente risvolto sostanziale perché etichetta una pratica per legittimare l’attuale strategia di controllo. Oppure, laddove lo sforzo di porre al centro la salute dei consumatori viene comunque descritto in contraddizione con quanto previsto dalle Convenzioni internazionali.
È il caso delle pratiche di riduzione del danno. Certo: occorre riconoscere che, rispetto ai Rapporti precedenti, il Board usa un tono di voce più dimesso e concede qualche spiraglio di speranza. Ad esempio, non pare stizzirsi più di tanto in merito allo scambio di siringhe. Ma anche qui, si tratta soltanto di un timido passo in avanti. Primo, perché nulla si dice per promuovere lo scambio di siringhe in carcere (in termini di diritti umani, un raro esempio di sensibilità…), nonostante l’appello in questo senso dell’Organizzazione mondiale della sanità. Secondo, perché anche quest’anno (emblematica la Raccomandazione chiave n. 24) guai a parlare di «stanze del consumo»! Così, nessuna sorpresa se ci tocca leggere l’ennesima lista dei cattivi, ai quali il Board ricorda, senza troppa fantasia, che «occorre dare risposte adeguate in conformità con i trattati internazionali» e che le «stanze» sono contrarie all’articolo 4 della Convenzione del 1961.
La lista, però, si allunga, dopo l’ingresso della «stanza» di Lisbona. Ma fortunatamente il «consumo impunito» durerà ancora pochi mesi. Entro la fine dell’anno non sentiremo più parlare di cannabis, coca e oppio. Parola dell’Onu.