Tempo di lettura: 3 minuti

Cinquant’anni fa la legge Merlin cambiava radicalmente la disciplina del mestiere più antico del mondo che, pubblicamente tollerato a fatica, è stato da sempre nel nostro paese talmente diffuso da essere regolamentato sin dal 1432, quando nel Regno delle Due Sicilie era stata rilasciata una reale patente per l’apertura di un lupanare pubblico. Lo stesso Cavour, più di quattro secoli dopo, istituiva il meretricio di Stato prevedendo tariffe di favore per i soldati, indotti a comprarsi quel corpo femminile, da cui la vita al fronte li teneva lontani. Fenomeno diffuso, dunque, ma celato al pubblico, la prostituzione era considerata un divertissement che lo Stato non avrebbe mai potuto negare agli uomini, vincolati e ad un tempo fedeli ad una concezione tanto sacrale quanto patriarcale della famiglia, che imponeva loro il rispetto di una rigorosa doppia morale. La regolamentazione della prostituzione era quindi ritenuta il male minore, necessario comunque per tutelare tanto la pubblica moralità e il buon costume quanto la virtù di donne destinate a diventare spose e madri, e che spesso proprio nel “fare la vita” trovavano la morte, contraendo malattie letali. Per rafforzare l’istituto familiare e il rigore dei costumi, Mussolini imponeva nel 1931 all’autorità di pubblica sicurezza di schedare le prostitute, privandole di molti diritti civili e riducendole di fatto in uno stato di semi-schiavitù alla mercé dei collocatori e dei tenutari delle case.
Contro queste leggi si batteva in Parlamento la Merlin, e soprattutto contro la vergogna di uno Stato capace di riscuotere la tassa di esercizio sugli incassi della vendita del corpo femminile. Nel regolamentare l’esercizio della prostituzione, la legge Merlin ha cura di non definirne la nozione né di sancirne la liceità: ne proibisce lo sfruttamento, il favoreggiamento, la tolleranza abituale, ma non ne vieta l’esercizio liberamente scelto, senza per questo affermarlo come diritto né facoltà. Resta fenomeno dunque, fatto umano e non giuridico, non disciplinato dalla legge, ma in quanto non vietato non punibile. Pur mirando a impedire ogni forma di schedatura o discriminazione, la legge Merlin non avrebbe mai riconosciuto alla donna il diritto di vendere il proprio corpo. Lo stesso giudizio che del meretricio traspare dalla lettera della legge non è certo positivo né neutro: negli istituti di patronato – dice la legge – «potranno trovare ricovero» anche le donne che, «pur avviate già alla prostituzione, intendano ritornare ad onestà di vita».
In questa contrapposizione tra meretricio e onestà di vita si gioca il compromesso, sancito dalla legge Merlin, tra le diverse concezioni della pubblica moralità, del buon costume, della libertà della donna e del suo corpo, presenti nella società italiana degli anni ’50 ed oggi non più attuali. Perché è mutata la sensibilità comune tanto rispetto alla libertà del corpo femminile quanto rispetto alla percezione del sesso e di quel bene giuridico del comune senso del pudore che la Merlin presupponeva unanimemente condivisi e come tali meritevoli di tutela, addirittura penale. La prostituzione oggi non è riducibile alle figure simboliche descritte dal Pasolini di Mamma Roma o dal Fellini delle “Notti di Cabiria”. Né tantomeno alla Sonia del Dostoevskji che senza perdere la sua purezza si vende per salvare la famiglia dalla miseria; che legge il Vangelo a un assassino, ma non osa avvicinarsi a una chiesa, ritenendosi immeritevole della parola di Dio. Prostituzione oggi significa, se liberamente scelta, espressione dell’autodeterminazione individuale, ma significa anche, se frutto di costrizione (da parte dell’uomo o anche solo della necessità), una delle più terribili forme di schiavitù, che fa della persona merce da vendere per il piacere di altri. Ed è proprio dalla coscienza di questa complessità che dovrebbe muovere oggi una nuova disciplina della prostituzione, non certo incriminando – come propone il Governo – l’esercizio e la fruizione in luoghi pubblici di tale attività, che rischierebbe di relegarla all’interno di spazi privati dove è ancora più pericolosa per le donne che la praticano. Ma contrastando il racket e lo sfruttamento soprattutto delle minori e favorendo di contro iniziative di formazione e inserimento nel mondo del lavoro di coloro che desiderino smettere di “fare la vita” ma non possano farlo solo perché prive di reali alternative.