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La sanità alla sanità, la giustizia alla giustizia. Per far valere questa lapalissiana attribuzione di competenze ci sono voluti dieci anni, ma finalmente – pare – ci siamo arrivati. Ricordiamone i precedenti: nel 1998 la riforma del Servizio sanitario nazionale targata Bindi, che prevede – tra l’altro – il passaggio di competenze nell’assistenza sanitaria ai detenuti e agli internati dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale; nel 1999 il decreto legislativo 230 che, conseguentemente, dispone il riordino della medicina penitenziaria, subordinandolo però a una sperimentazione che si protrarrà stancamente fino al 2002. Poi, più nulla: durante il lungo inverno berlusconiano, sotto il giogo del leghista Castelli, il Ministero della giustizia è tornato a coltivare una vocazione autarchica, con l’assistenza sanitaria ai detenuti prestata sempre più fiaccamente dalla medicina penitenziaria, progressivamente spogliata di risorse.
Con il ritorno al governo del centrosinistra, si è potuto riprendere quel cammino, destinato ad affermare la portata universalistica del diritto alla salute attraverso il suo pieno riconoscimento ai detenuti e agli internati. Su iniziativa del governo, la Finanziaria prevede la completa attuazione del passaggio di competenze nell’assistenza sanitaria ai detenuti e agli internati negli Istituti penitenziari e negli Ospedali psichiatrici giudiziari, nei Centri di prima accoglienza, nelle Comunità e negli Istituti per i minori. Entro il prossimo marzo un decreto governativo disporrà il trasferimento delle funzioni, del personale, delle attrezzature e delle risorse finanziarie fino ad oggi gestite dal Ministero della giustizia.
Una grande riforma. Qualcuno dice, la più grande che investa il nostro sistema penitenziario dai tempi della Gozzini. Forse. Certo è che non solo si afferma l’universalità del diritto alla salute, ma si spinge l’apertura delle strutture penitenziarie fin dove non era mai arrivata. Per un aspetto delicatissimo delle sue implicazioni, la privazione della libertà è sottratta alla competenza del Ministero della giustizia: la tutela della salute dei detenuti e degli internati, il loro benessere psico-fisico, secondo la canonica definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, non dipende più da chi ha la responsabilità di eseguire i provvedimenti giudiziari, ma da altre amministrazioni pubbliche.
Non è detto che questo trasferimento di competenze dia subito e sull’intero territorio nazionale il risultato auspicato, di un miglioramento effettivo delle condizioni di assistenza. Occorrerà, perché ciò sia, un impegno straordinario delle amministrazioni competenti e della società civile organizzata. Ma se dovesse funzionare, il sistema penitenziario ne risulterà trasformato, la sua autosufficienza (un vero e proprio dogma del potere coercitivo) sorpassata. Dalla apertura del carcere al territorio, che ha segnato la riforma e la prima costituzionalizzazione del sistema penitenziario italiano, invece di regredire verso lo splendido isolamento dei modelli meramente contenitivi di tipo statunitense, potremmo arrivare a una nuova corresponsabilità istituzionale nella esecuzione delle pene, in cui le Regioni e gli enti locali possano farsi carico fino in fondo dei bisogni della popolazione detenuta. Anche questo c’è, nella sfida di una sanità penitenziaria riformata.
Stefano Anastasia