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Per “sistema britannico” si intende l’approccio medico alla questione tossicodipendenze, la sua principale caratteristica. Sin dal lontano 1926 il rapporto Rolleston, frutto del lavoro di una commissione di esperti, decretava che il tossicodipendente era da considerarsi un “malato”, non un criminale: da qui il riconoscimento della libertà terapeutica ai medici, che potevano prescrivere droghe ai loro “pazienti”. Questo approccio non è mai venuto completamente meno, anche se nel corso degli anni ’60, sotto la spinta dell’aumento dei consumi e della dipendenza da eroina, e ancor di più per l’influenza del “sistema americano”, si assiste a un mutamento sostanziale delle politiche.

Nel 1968 il governo britannico annunciò che i medici avrebbero, da allora in poi, dovuto possedere una licenza per prescrivere eroina e cocaina, e nella pratica terapeutica il metadone per via orale sostituì l’utilizzo precedente dell’eroina, della morfina e del metadone iniettabile. Al contempo cambiava l’indirizzo dei programmi terapeutici: non più volti a “normalizzare” la vita dei tossicodipendenti, bensì finalizzati perlopiù all’astinenza.

La legge del ’71, nella sua ambiguità, ben riflette la crisi della cultura inglese sulle droghe: da un lato, penalizza il traffico e anche il semplice consumo, dall’altro, i centri di riabilitazione hanno mandato di utilizzare droghe sostitutive. Peraltro, il “sistema britannico” è sopravvissuto anche negli anni ’70 e ’80, pur se in esperienze limitate: alcuni medici hanno continuato a prescrivere eroina, morfina e molte altre droghe a un numero ristretto di tossicomani più anziani, appartenenti soprattutto alle classi medie.

Il trend più rigorosamente proibizionista era destinato al fallimento: nel corso degli anni ’80 i tossicodipendenti aumentarono di circa dieci volte rispetto alla stima degli anni ’60, mentre i soggetti in trattamento scendevano al 25%(agli inizi del ’70 almeno il 50% dei tossicomani ricorrevano alle terapie).

Sarà l’emergenza AIDS a imprimere un nuovo mutamento di rotta alle politiche sulla droga. L’esperienza del Merseyside, con l’avvio dei programmi scambia-siringhe, rilancia una cultura più tollerante verso i consumatori, ispirata alla “riduzione del danno”. Non senza polemiche e resistenze: il governo era all’inizio diviso, e nessuna forza politica sosteneva apertamente questa battaglia. Solo il tradizionale pragmatismo inglese ha convinto il National Health Service ad adottare la riduzione del danno come strategia nazionale, di fronte agli innegabili successi del Mersey nella lotta alla diffusione dell’HIV. Alla metà degli anni ’80, questa regione era fra quelle con la più alta incidenza nell’infezione, nell’88 era dell’1% al di sotto rispetto alla media nazionale, oggi è ancora scesa al 2,5% .

Non è però facile interpretare la realtà inglese nel suo insieme, perché la proverbiale “flessibilità” spesso si traduce nel predominio della “pratica” sociale e della prassi locale, senza che ne discendano mutamenti leggibili a livello di indirizzi generali. Il rifiuto di ogni “ideologismo” permette paradossalmente la coesistenza di rinnovati richiami (ideologici) alla “guerra alla droga”, con l’attuazione di politiche di contenimento sociale, più umanitarie e rispettose degli individui. Sotto il governo della “lady di ferro” la città di Liverpool ha sperimentato una linea d’avanguardia nella lotta al virus HIV. Dietro le dichiarazioni di “fedeltà” del laburista Blair al proibizionismo intransigente dell’alleato Clinton, che cosa si nasconde in termini di pratica politica per il fine millennio? Per approfondire questi spunti ci siamo rivolti ad Alan Matthews, che è stato uno dei protagonisti del “laboratorio” del Merseyside sulla riduzione del danno.

Quali sono gli indirizzi attuali del governo inglese sulle droghe e la tossicodipendenza?

Poche settimane fa è stato presentato un nuovo piano di intervento decennale. All’inizio ero molto scettico, perché il documento è infarcito di retorica proibizionista di stampo statunitense, con una marcata demonizzazione dei consumatori di droghe. Ma devo riconoscere che c’è anche del buono…

Cioè?

Sulla carta si afferma la volontà di sviluppare la prevenzione e la riduzione del danno, le politiche sociali insomma. Non ci sono risorse aggiuntive, ma si punta a riequilibrare gli stanziamenti rispetto ai settori di intervento. Attualmente, oltre i due terzi delle risorse di bilancio per le droghe sono assorbiti dalla repressione, solo il 13% è destinato ai trattamenti e alla prevenzione.

Parliamo un po’ del capitolo socio-sanitario. La tradizione inglese “medicalizzata” non porta a enfatizzare soprattutto gli aspetti sanitari della riduzione del danno, a scapito di un approccio più complessivo, che tenda a limitare i danni sociali legati all’illegalità? Non a caso si parla sempre dell’esperienza pilota di Liverpool per lo scambio di siringhe…

È vero che questo è l’intervento più conosciuto, ma la riduzione del danno è ben altro. È una politica di convivenza civile, di dialogo, di integrazione sociale dei consumatori di droghe, cercando di inserirli in un contesto sociale più attivo e positivo. È un lavoro sul territorio in cui tutte le agenzie (dalla sanità, ai servizi sociali, alla scuola e formazione, alle risorse abitative) si coordinano, in quelle che chiamiamo politiche di comunità, per offrire nuove opportunità e un ambiente più favorevole ai tossicodipendenti. Questa in sintesi era già la linea del piano quadriennale del 1995: la promozione di un lavoro complesso e coordinato di comunità, che mira a modificare le culture e la rappresentazione sociale del tossicodipendente.

In altre esperienze, come quella di Zurigo o di Amsterdam, sono state le municipalità a spingere in questa direzione. È così anche in Inghilterra?

Non direi. La spinta è venuta dalle autorità sanitarie, che sono riuscite a coinvolgere gli altri soggetti istituzionali interessati, comprese le municipalità. Ma all’inizio molte erano contrarie..

Voi parlate di integrazione sociale, ma la legge considera il consumo come reato. Anche la magistratura e la polizia partecipano alle politiche di comunità, nonostante la legge?

Esiste certamente una pratica penale molto più flessibile della legge, e si è tentato di coinvolgere anche la polizia, ma con risultati parziali e contraddittori. La polizia ha un enorme potere e discrezionalità, a tutti i livelli. Il poliziotto può trovare una bustina di droga addosso a un consumatore e decidere di buttar via la sostanza e lasciarlo libero. Oppure lo porta al commissariato e lo ammonisce senza procedere. O, ancora, può scegliere di inviarlo al magistrato, che a sua volta può, a propria discrezione, non procedere alla condanna, ma inviarlo ai servizi.

Vuoi dire che non c’è un indirizzo chiaro per le forze dell’ordine? Per intendersi: un piano coordinato che stabilisca la priorità degli interventi repressivi, in base al quale, per esempio, in Olanda si decide che il consumo di droghe non è perseguito e neppure la vendita di piccole quantità di cannabis nei coffee-shops.

Assolutamente no. Nella stessa Liverpool la polizia si comporta diversamente da quartiere a quartiere.

È in vista una revisione della legge?

Non se ne parla affatto, perché il governo non vuole riaprire questo capitolo. Anzi, Blair ha di recente istituito lo “zar” della droga, sull’esempio dell’America, una specie di commissario straordinario che risponde direttamente al Primo Ministro: un rilancio in grande stile della retorica proibizionista. Però lo stesso “zar” è incaricato di gestire il nuovo piano per sottrarre risorse alla repressione a favore della spesa sociale…

Non si vuole cambiare la legge perché si pensa di inimicarsi gli umori dell’opinione pubblica?

Evidentemente i politici la pensano così, ma il senso comune è profondamente cambiato. Le famiglie, gli insegnanti, molte associazioni di base si chiedono che senso abbia continuare con la repressione. Non so perché insistano i politici… gli unici che hanno ottime ragioni per insistere sono i narcotrafficanti.