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«La Repubblica è persa». Gore Vidal, grande storico e romanziere statunitense, nobile “voce contro” dell’Amministrazione Bush ed implacabile fustigatore dei politici a stelle e strisce, veste la maschera di Cassandra senza autocompiacimento. «Sono anni che vado scrivendo che la più seria minaccia alla libertà degli Stati Uniti non è Osama, tantomeno Saddam, ma questo branco di petrolieri arroganti, che ignorano il diritto e santificano la pena di morte». Tornato in Italia in occasione dell’uscita del suo ultimo libro di memorie, Navigando a vista (Fazi Editore, 2006), Vidal – che con i suoi saggi storici ha spiegato l’America agli americani – celebra, senza orgoglio, il de profundis della democrazia statunitense. «Sotto gli occhi abbiamo il ritratto di una nazione che sta progressivamente annientando le libertà civili».
A cosa allude esattamente?
Alla rovina delle antiche istituzioni repubblicane, al massacro dei Dieci Emendamenti. Un regime con aspirazioni tiranniche ed un popolo ignorante hanno portato alla sospensione dei diritti custoditi nella Magna Carta e nell’Habeas Corpus, le autentiche colonne su cui poggia il nostro sistema costituzionale.
La copertina di un suo recente saggio fotografa efficacemente il concetto: la Statua della libertà compare imbavagliata dalla stessa bandiera Usa…
Purtroppo quel nodo è sempre più stretto. Prima l’Anti-Terrorism Act, seguito alle bombe di Oklahoma, quindi il Patriot Act, all’indomani dell’11 settembre, da ultimo il Military Commissions Act, che prevede corti militari per i sospettati di terrorismo. Ognuna di queste leggi è una dichiarazione di guerra alla vita, alla libertà e alla proprietà dei cittadini americani, un attacco che non ha precedenti nella nostra storia.
Lei ha definito il quinquennio che separa la fine della seconda guerra mondiale dal conflitto in Corea (1945-1950) come l’Età dell’oro della storia americana. Cosa è successo dopo?
Sfortunatamente Harry Truman e gli altri inquilini della Casa Bianca temevano che abbandonare lo stato di guerra significasse scivolare nuovamente nella Grande Depressione economica. Il 12 marzo 1947, con il pretesto del conflitto civile in Grecia, il presidente dichiarò guerra al comunismo, erigendo gli Usa a faro globale di libertà contro l’espansionismo sovietico. La Dottrina Truman sostituì la Repubblica con uno Stato di sicurezza nazionale, in cui i nostri oscuri “garanti” – Cia e Fbi in primis – potevano impunemente intercettare, pedinare ed incarcerare qualunque cittadino. Fu così che nacque l’Impero.
Per quale motivo il Congresso, l’organo di diretta rappresentanza dei cittadini, non è stato in grado di fronteggiare questa deriva?
Il Congresso si è arreso all’esecutivo cedendogli il primo dei suoi grandi poteri, quello di decidere (e finanziare) le guerre. Di tutte le avventure belliche che abbiamo intrapreso a partire dal 1950, nemmeno una è stata dichiarata dai rappresentanti del popolo americano, come richiesto dalla vecchia Costituzione. Ed è proprio il Congresso a garantire al Pentagono più soldi di quanto quel buco nero abbia mai chiesto: i due terzi degli introiti del governo vengono risucchiati per pagare quella che eufemisticamente viene chiamata difesa.
Guardando agli Usa degli ultimi sessant’anni, un altro grande studioso – Charles A. Beard – ha parlato di una «guerra perpetua per la pace perpetua»: una definizione che lei richiama frequentemente.
Il vero motore della società e dell’economia statunitense è la guerra o la sua minaccia. Non a caso abbiamo sempre inseguito un nemico che la giustificasse: per un lungo periodo il comunismo ha risolto il problema, ma quando i sovietici ci hanno pugnalato alle spalle, con l’implosione dell’Urss, abbiamo avuto bisogno di un nuovo Satana da agitare. Da Pearl Harbor all’Iraq siamo stati coinvolti in un centinaio di conflitti sparsi in tutto il pianeta, e siamo sempre stati noi a sferrare il primo colpo.
Lei è un profondo conoscitore dei 200 anni di storia americana. Cosa ha trasformato la giovane democrazia liberale nel Paese occidentale che più frequentemente ricorre alla carcerazione dei propri cittadini e alla loro condanna a morte?
Il dramma della nostra Repubblica è sempre stato, a partire del 1791 ad oggi, l’attacco dei pochi abbienti ai diritti delle masse irrequiete, spesso travestito da volontà della maggioranza virtuosa contro i pochi devianti. Oggi l’80% delle attività di polizia è diretta a contrastare e reprimere comportamenti che attengono alla nostra sfera privata, i cosiddetti crimini senza vittima. Mi riferisco all’ottuso e perverso tentativo di controllare ciò che beviamo, mangiamo, fumiamo, per non parlare della volontà di imporci come e con chi dobbiamo fare sesso o giocare d’azzardo.
Non è lecito auspicare che l’esperienza e la memoria storica impediscano che nuove generazioni perpetuino vecchi errori?
Noi, popolo degli Stati Uniti di Amnesia, non impariamo nulla perchè non ricordiamo nulla. I nostri cittadini vengono tenuti in uno stato di ignoranza da mezzi di informazione corrotti e illiberali, la propaganda è ormai parte della storia e del codice genetico statunitense. Ma non mi si additi come un antiamericano: io amo il mio Paese, ne sono persino il biografo contemporaneo…
Italo Calvino, di cui lei è stato grande amico e ammiratore, sosteneva che «Tutto può cambiare, ma non il linguaggio che ci portiamo dentro». È per questo che nelle sue opere tanta attenzione è dedicata alla valenza simbolica del linguaggio?
Vede, la questione terminologica è solo apparentemente secondaria. Quando si è deciso di attaccare i paesi islamici che avrebbero favorito i nostri nemici mortali, l’attuale Amministrazione ha scelto di utilizzare il termine crociata. Esiste vocabolo più esplicito? Per descrivere la stagione del proibizionismo, la più grave crisi di legalità e di ordine pubblico nella storia degli Usa, ancora si parla di nobile esperimento. Per non citare le metafore militari: il responsabile della Drug Enforcement Administration (il Dipartimento antidroga federale, ndr) è insignito del titolo di zar. Non sarà un caso se uno di questi, l’aspirante ayatollah William Bennett, non solo propose di sospendere le garanzie dell’Habeas Corpus per combattere la guerra alla droga (niente di originale, direi), ma – forse per tenere fede al titolo – giunse a richiedere la pubblica decapitazione degli spacciatori.
Tanto negli Usa quanto in Italia, i confini tra ciò che è vietato dalla legge e ciò che è ritenuto eticamente sbagliato tendono spesso a confondersi. E questo accade, sempre più frequentemente, anche nel dibattito politico.
La politica esiste per eliminare le ingiustizie, non per punire i peccatori. È per questo che, ad esempio, nella Costituzione dei nostri Padri Fondatori si vieta l’adozione di una religione di Stato, garantendo a tutti la libertà di culto. Eppure, secondo molti, vi sarebbero alcune leggi o codici giuridici che hanno accompagnato la civiltà umana fino dalle origini e dunque apparterrebbero al nostro dna culturale. Si tratta in realtà di un argomento antistorico e pericoloso: le leggi contro la sodomia risalgono all’imperatore Giustiniano, secondo il quale tale norma era necessaria perché «come tutti sanno la sodomia è la principale causa dei terremoti».
Nel 1948 la pubblicazione del romanzo La statua di sale – storia di un amore diverso tra due ragazzi americani normali, emancipati e di buona famiglia – le valse una censura di sei anni sui media nazionali e l’accusa del New York Times di «avere fatto diventare omosessuale la più grande nazione del mondo». Chi ha avuto ragione sessant’anni dopo?
Quando il New York Times rifiutò di recensirmi, non avrei mai ritenuto possibile che il libro rimanesse in catalogo per quasi cinquant’anni, eppure è stato così. D’altra parte mi risulta che l’editore del New York Times, poche settimane fa, abbia denunciato un bilancio in rosso di oltre 500 milioni di dollari e la concreta ipotesi di smettere di pubblicare entro cinque anni. Ma anche in questo caso non vorrei cedere all’autocelebrazione…