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Con brutto neologismo, si chiamano i “prefettati”. Sono quelle persone segnalate dalle Prefetture ai Sert in quanto consumatori di sostanze illegali, secondo l’articolo 121, per lo più consumatori di cannabis, e quelli sottoposti a sanzioni amministrative per detenzione e possesso personale, secondo l’articolo 75, che possono accedere a un programma terapeutico in alternativa alla sanzione, in crescita quelli che usano cocaina. I “prefettati” della Fini Giovanardi non sono ancora, dopo un anno, arrivati ai servizi, ma la legge 49/2006, come noto, ha inasprito alcuni aspetti, pur senza modificare sostanzialmente l’impianto del Testo unico 309, e dunque le esperienze dei servizi possono già dirci molto su percorsi e gli esiti dell’assunto-base della nostra normativa: che l’aggancio per via sanzionatoria sia produttivo dal punto di vista della cura. O meglio e più propriamente – secondo la lettera della legge – della “guarigione”, essendo l’astinenza esplicitamente l’esito richiesto. Che valutazione danno gli operatori di questo dispositivo sanzionatorio-terapeutico? E come si sono nel tempo attrezzati a gestirlo? Susanna Collodi, medico responsabile del Sert Roma B, Paola Panzieri, assistente sociale del Sert di Faenza e Riccardo De Facci della Cooperativa Lotta all’Emarginazione di Milano, pur nella diversità delle esperienze, concordano su molte criticità. La prima, i tempi: da 1 a 3 anni tra segnalazione e contatto con un operatore. De Facci, che segue il progetto regionale lombardo con cui una partnership pubblico-privato gestisce gli invii dalla Prefettura di Milano, segnala come questa iniziativa sia stata stimolata anche da questi ritardi: «Era arrivata una richiesta di aiuto dalla Prefettura di Milano che all’inizio del 2000 aveva circa 3.000 colloqui arretrati. L’arrivo ai servizi con una media che oscilla tra i 2 e i 3 anni invalida anche quell’elemento minimo positivo che avrebbe potuto esserci in un aggancio precoce. In quel modo la segnalazione finisce con l’avere solo il senso della sanzione pura».

Anche a Roma è così: «Gli invii, sia per il 121 (segnalazione per consumo) che per il 75 (sanzioni amministrative per consumo), arrivano minimo un anno e mezzo dopo il fermo, capita che vi siano persone decedute e consumatori che nemmeno se ne ricordano più», dice Susanna Collodi. E le realtà più piccole, come Faenza, non sono diverse, anche lì si parla di due anni, e secondo Paola Panzieri «Se un’azione in cui sei perseguito per legge si concretizza dopo due anni, che senso può avere? Nel frattempo le cose cambiano». Ma non sembra essere solo una questione di efficienza, se anche i tempi fossero brevi, gran parte dei consumatori se non costretti dall’articolo 75 non arriverebbero ai colloqui comunque: «Credo che tutto questo non sia molto utile. Dobbiamo dirci che al semplice consumatore, delle sanzioni amministrative non gliene importa niente: se gli tolgono la patente, prima che arrivi il provvedimento ne passa del tempo! Vengono qui quando sono all’ultima spiaggia costretti dall’articolo 75, ma per la segnalazione, quale aggancio? Non ce n’è proprio, e questo da sempre» (Collodi). Oltre a quelli che non si presentano, resta secondo gli operatori il nodo di fondo dell’approccio sanzionatorio. Che nelle loro pratiche appare ben più un ingombro che un’occasione e che cercano di minimizzare e aggirare per poter aprire una relazione sensata. Dai racconti professionali si coglie l’imbarazzo di dover fare buon viso a cattiva sorte: «Il progetto milanese è un intervento per dare a questa segnalazione un valore diverso, nell’ottica di limitare i potenziali danni di una sanzione fine a se stessa. Il contatto si crea quando la sanzione “sfuma” come dimensione primaria» (De Facci). «Dato che si deve fare, almeno proviamo a fare qualcosa che abbia senso… Anche se il senso di tutto questo è molto relativo, negli anni abbiamo tentato di fare qualche cambiamento anche per non buttare via il tempo, e non fare azioni solo burocratiche» (Panzieri). Certo, coloro che arrivano al colloquio in alcuni casi “usano” positivamente l’occasione del contatto, entrano in relazione, a volte tornano spontaneamente. E alcuni sono agganciati precocemente. Lo fanno soprattutto quando, come a Milano e a Faenza, sono accolti in luoghi “neutri”, non-Sert, centri giovanili o consultori. E lo fanno comunque quando trovano non un approccio dissuasivo e abstinence oriented, ma all’opposto un intervento informativo e orientato alla consapevolezza. Le azioni professionali prevalenti con i consumatori ex 121 non sono certo quelle attese da chi mira all’astinenza, ma proprio grazie alla professionalità degli operatori qualcosa di più pragmatico e sensato, assai vicino a quanto viene attivato nei luoghi naturali di aggregazione e divertimento: «Noi per lo più con i consumatori, il cui atteggiamento è quello di dire “cosa c’entro e che ci faccio qui?”… puntiamo molto sull’informazione legale, perché questo è uno degli aspetti di rischio. E poi ragioniamo sulle sostanze, gli effetti, la loro storia, la dimensione culturale, promuoviamo elementi di consapevolezza, anche sul rapporto droghe e sessualità e rischi relativi». E De Facci: «Nessuno ha mai esplicitato un obiettivo di cessazione dell’uso, bensì di sensibilizzazione, anche perché in questo dispositivo non era comunque possibile garantirlo». Insomma, un lavoro di limitazione dei rischi, sapendo che “continueranno a consumare”. E su cui, però, a questo punto si apre tutta la contraddittorietà di un approccio punitivo mirato all’astinenza. La legge e le pratiche sensate degli operatori non “stanno insieme”. «Credo che l’aggancio debba avvenire in altri contesti – dice Susanna Collodi – e non attraverso le sanzioni o il 121: ha più valore una buona informazione in luoghi di aggregazione. Dobbiamo dare per scontato che il consumo c’è. I consumatori sanno benissimo qual è il meccanismo burocratico, e non ha effetto alcuno». Se con l’articolo 121 nessuno, nella pratica, si aspetta una scelta di astinenza, c’è anche da notare che le prese in carico per situazioni problematiche sono assai rare: poche decine in 3 anni su oltre 2000 persone segnalate, nel progetto milanese; assai rare anche a Roma, dove per altro, secondo Collodi, «non mi è mai capitato di trovare una situazione davvero problematica per un consumatore di canapa. In passato è capitato qualche raro caso di difficoltà scolastiche, ma c’erano altre problematiche familiari o relazionali; non mi sentirei di poterle attribuire con certezza all’uso di canapa».

Assai diverso e complesso lo scenario dell’articolo 75, dove sono presenti più consumatori di cocaina e poliassuntori, e dove l’azione degli operatori è vincolata ad un buon esito del programma in termini di scelta astinenziale. Qui scatta la lotteria delle Prefetture: dove c’è più flessibilità un programma può essere prolungato o reiterato, su proposta del Sert, prima che scatti la sanzione. Ma anche qui, il pragmatismo disincantato degli operatori verso l’approccio sanzionatorio è evidente: «Con il 75 c’è l’obiettivo dell’astinenza, con noi per un periodo la persona si impegna a fare i controlli delle urine, per quasi due mesi, e un colloquio con il medico. Noi seguiamo la persona aiutandola almeno a “tenere”, a sperimentare un periodo, quello richiesto, di astinenza, a provare a fare un periodo della vita senza la sostanza e vedere come va» (Panzieri). E Collodi dice che «per i consumatori di cocaina, se non si riscontra altra patologia, se c’è buona integrazione sociale e un buono stato di salute – come ormai è la norma – si fanno colloqui periodici con lo psicologo e con l’assistente sociale, che possono anche diventare una psicoterapia, ma di solito sono semplicemente colloqui. Si fa poi il controllo delle urine per arrivare a una relazione alla Prefettura e evitare le sanzioni amministrative». Posizioni oneste e pragmatiche. Del resto non vi sono studi di follow up che dicano con chiarezza se e come l’astinenza ottenuta per via sanzionatoria abbia una qualche tenuta.

(1. continua)