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Che il modello di Welfare , secondo cui lo stato assicurava direttamente i servizi in sfere sociali essenziali (salute, educazione, sicurezza sociale), sia in crisi irreversibile, è dato ormai storicamente consolidato. Su cui tuttavia riflettere per cercare nuove soluzioni. L’incubo cui allude Ota De Leonardis nel suo saggio (In un diverso Welfare, Sogni e incubi, Feltrinelli, 1998, pp. 184, 26.000 lire) è che questa evidenza scada a luogo comune, atto ad alimentare per contrapposizione un altro luogo comune: che basti aprirsi al mercato, alla nuova imprenditoria sociale, al no profit , alla “solidarietà” di cui sarebbe ricca la società civile, per superare la crisi. Non si tratta di negare l’involuzione cui è incorso l’Welfare State: la burocratizzazione, il paternalismo autoritario, la torsione dell’obbiettivo di integrazione sociale verso una “normalizzazione” delle differenze sociali e culturali, l’assistenzialismo. Ma neppure di credere che affidarsi all’”efficienza” del privato, alla libera imprenditoria in campo sociale , in una parola al dispiegarsi delle “virtù” del mercato, sia la ricetta vincente; se vogliamo difendere quella che De Leonardis chiama “l’eredità difficile” del Welfare. Che consiste nel garantire la dimensione pubblica dei beni che si intende tutelare, che per l’appunto possono definirsi “sociali” in quanto “socializzati”, ovvero oggetto di comunicazione, di relazione fra soggetti e attori sociali, di dibattito pubblico sulla loro stessa definizione e ridefinizione. Solo se mantiene questa dimensione pubblica, il sistema di Welfare diventa, o meglio ridiventa, il “laboratorio” sociale per l’affermarsi dei diritti di cittadinanza. Questa, è vero, è la promessa mancata del Welfare State: non è riuscito a garantire l’attivazione della discussione pubblica sui beni da garantire e si è ridotto solo a erogare prestazioni secondo una logica privatistica. Non è però detto che questa stessa promessa sia onorata dalla tanto esaltata Welfare society. Se non altro perché altra è la tematizzazione che sottende il passaggio dall’uno all’altro sistema, dal monopolio statale dei servizi al mercato sociale. Si discute molto di ridurre i costi, aumentare l’efficienza, introdurre logiche “manageriali”; molto meno, se non affatto, di come produrre socialità, interazione fra soggetti, prima di tutto fra chi eroga il servizio e chi lo riceve. La cui “passivizzazione” e dipendenza non si supera col mutamento lessicale da “utente” dei servizi pubblici a “cliente” delle prestazioni del privato sociale. Dal ricco saggio di De Leonardis cerchiamo di approfondire alcuni spunti, legati all’odierno dibattito politico e culturale. Si può ad esempio notare come l’odierno rilancio delle culture neo-liberiste avvenga sul registro dell’individuale-privato (la bontà dell’iniziativa privata, la solidarietà intesa come rapporto individuale e fortemente asimmetrico fra chi la offre e il beneficiario): contrapposto al pubblico-statuale. Si perde così una dimensione fondamentale della concezione liberale dello stato di diritto, quella della sfera pubblica in cui si forma la cittadinanza. Dove appunto, secondo l’idea di “società aperta” tipicamente liberale, la cittadinanza è un processo di costruzione della stessa, di soggettivazione sociale degli individui, da privati a cittadino/a, in una continua interazione/conflitto fra differenze non assimilabili. È in questo confronto pubblico che prendono corpo le libertà individuali, e si garantiscono i cittadini da una norma sociale e statale prescrittiva e illiberale. Non è allora un caso l’attuale paradosso: in nome del neo-liberismo proprio il tema della libertà rimane in ombra. C’è, è vero, una grande enfasi sulla libertà di scelta dell’utente (o del cliente). Ma non si mette in discussione affatto il carattere autoritario e normalizzatore di molti servizi erogati dal privato (così come dal pubblico). Ciò è evidente nel campo delle tossicodipendenze. Il modello della comunità terapeutica è un esempio della torsione collettivista e illiberale del Welfare, dove si offre appartenenza comunitaria in cambio della più rigida subordinazione dei singoli/e alla regola comunitaria. Va da sé che il modello autoritario dell’intervento sociale si rifletta sul ruolo regolativo penale attribuito allo stato, sul terreno dei comportamenti individuali: proprio da questo “libero” mondo del privato sociale si alza più forte l’invocazione a non allentare la morsa, anche simbolica, della proibizione. Ovviamente, non si vuol negare che anche il modello di Welfare statale abbia operato spesso secondo logiche di esclusione sociale, facendosi portatore di istanze “normalizzatrici” univoche, invece che produrre integrazione fra differenze (di stili di vita, di capacità individuali e opportunità sociali). La lezione inglese, patria del Welfare, insegna. Viene in mente la denuncia di Ken Loach, in una delle sue opere più belle: Lady Bird, lady Bird. Come dimenticare l’inesorabile efficienza tipicamente britannica della burocrazia dei social services nel sottrarre a quella madre “anomala”(rispetto alle regole della famiglia piccolo borghese) un figlio dopo l’altro? Ma insieme torna alla memoria il caso di Serena Cruiz. E il non meno pernicioso integralismo di certe associazioni, che in nome del supremo Bene collettivo dei bambini abbandonati non esitarono a sacrificare il benessere di quella bambina, esigendo che fosse strappata alla famiglia adottiva: rea sì di avere infranta la legge, ma che tuttavia l’aveva accolta con affetto. Questo “libero” mondo dell’associazionismo tematico reclama a gran voce l’esclusiva nel definire ciò che tutelerebbe i diritti dei bambini: guarda caso il modello unico della famiglia benedetta dallo stato. A dimostrazione di come di per sé il privato, anche quando si fregi dell’aggettivo sociale, possa benissimo riprodurre i meccanismi di una “società chiusa”. Dove non esiste una dimensione “pubblica” di confronto su ciò che è bene da salvaguardare, perché si pensa di aver già trovato la risposta a tutte le domande. Dove la cittadinanza significa solo sudditanza alle regole statali, che per ciò stesso non possono che diventare sempre più invasive rispetto all’autonomia individuale. Tutto il contrario della “società aperta”. Per l’appunto.