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Where there is a valley / there is a hill;
Where there is a doctor / there is a pill

Antico adagio inglese

«Dove c’è una valle c’è anche una collina, dove c’è un dottore c’è anche una pillola». Altri tempi! Oggi, non uno, ma dieci, cento, mille dottori di altrettante sub-sub-sub-specialità sempre più cirscoscritte; e non più la pillola di una volta, per lo più di non provata efficacia o di provata inefficacia, ma dieci, cento, mille pillole, compresse, blister, cerotti medicati, …, per lo più – va vigorosamente sottolineato – di provata efficacia. Ne sono testimoni, per esempio, molte persone con patologie vascolari che in tempi ancora recenti conducevano rapidamente a morte, o peggio, a stati di grave e penosa disabilità. Oggi, invece, in buona parte di questi casi la combinazione di interventi sullo stile di vita, di nuovi mezzi diagnostici, di nuovi farmaci e di nuove tecniche di intervento su cuore e vasi consentono il guadagno di anni e decenni di vita di buona qualità.
Sui progressi strabilianti della medicina ci sarebbe pertanto ben poco da rugare: se non fosse per il modo in cui una serie di fattori – gli interessi economici e corporativi, le carenze di formazione e aggiornamento, i meccanismi con cui si alimenta una domanda distorta, alla quale l’offerta è spesso pronta a rispondere generosamente – producono una mole altrettanto strabiliante di effetti perversi, che tra l’altro stanno mandando in bancarotta tutti i sistemi sanitari. (Il testo italiano che meglio illustra le varie anomalie resta quello di Marco Bobbio, Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza, Einaudi 2004). In sintesi, un primo meccanismo consiste nella frequente rinuncia a distinguere tra gli interventi altamente efficaci – cioè recanti benefici notevoli, con elevati rapporti beneficio/rischio e beneficio/costo –, quelli via via meno efficaci, sino al limite del cosiddetto effetto futile (qualcosa cambia, ma il beneficio per il paziente è nullo o trascurabile) e infine quelli inefficaci. (Questi ultimi, pur relativamente meno frequenti di una volta, ancora pullulano in varie forme: nel caso dei farmaci, non hanno provata efficacia molti di quelli in fascia C, spesso prescritti da molti medici a carico dei pazienti, e di quelli da banco per automedicazione; per non parlare di varie altre categorie più o meno fantasiose, come gli integratori, ecc.). Cioè molti medici, per un motivo o per l’altro, seguitano a dispensare i vari tipi di prodotti come se avessero tutti lo stesso valore terapeutico, mentre la massiccia promozione diretta e indiretta alimenta una domanda sempre sostenuta sia di prescrizioni, sia di prodotti acquistabili senza ricetta.

Un secondo meccanismo, ancora più gravoso sul piano economico e ancor più nocivo su quello della salute, riguarda l’uso inflazionato e improprio di prodotti di provata ed elevata efficacia. Evitando di citare per l’ennesima volta l’uso a vanvera degli antibiotici, si può ricordare come i moderni antiulcera (anti-H2, inibitori della pompa) siano stati consumati per decenni in quantità più volte superiori a quelle calcolate come necessarie in base alla frequenza di ulcere gastriche e duodenali: cioè sono stati sistematicamente prescritti per vari disturbi dispeptici in assenza di ulcera, senza poter produrre benefici, ma solo rischi di effetti collaterali.
Un terzo meccanismo riguarda l’avvicendamento di prodotti nuovi e assai più costosi a quelli più vecchi diventati economicamente poco interessanti, per scadenza dei brevetti o altro. (Per incidens: in Italia sono ancora consentite per legge proroghe brevettuali assai più estese che in altri paesi, ovviamente a danno della concorrenza tra farmaci di marca e generici). L’avvicendamento è in certi casi più che giustificato (vedi quanto più sopra accennato per le malattie cardiovascolari: anche se studi recenti hanno indicato che la terapia più efficace per buona parte degli ipertesi è quella con prodotti che ormai costano quanto il sale da cucina, come i vecchi diuretici): ma l’imperativo sempre più categorico resta quello di prescrivere indiscriminatamente i prodotti all’ultima moda. In molti casi, comunque, l’avvicendamento è frutto di evidenze non valide, o almeno dubbie, sulla superiorità dei nuovi prodotti (questo aspetto è esaminato in modo particolarmente minuzioso dal già citato Bobbio). A tale mistificazione contribuiscono da un lato le normative neoliberiste, che obbligano gli enti di controllo – come la statunitense Fda e l’europea Emea – ad accontentarsi per la registrazione di prove di «non inferiorità» di un nuovo prodotto rispetto ai suoi predecessori; dall’altro i poderosi meccanismi della promozione, a fronte dei quali le risorse pubbliche per la formazione e l’informazione risultano irrisorie.

Ed «eccoci alfin in Babilonia» come nella Semiramide di Rossini, cioè alla più spinosa delle questioni in campo psicofarmacologico: il modo di impiego dei neurolettici o antipsicotici. È ben noto, infatti, che questi prodotti non esercitano una vera e propria azione terapeutica, ma solo un effetto di contenimento sintomatico, un effetto che di certo può essere assai utile per facilitare l’avvio di un programma terapeutico basato soprattutto su altre misure di cura e sostegno. Tuttavia l’uso che spesso ancora prevale – cioè il ricorso a trattamenti intensi e prolungati in pazienti per i quali poco o nulla si fa al di fuori della cura farmacologica – non solo conduce inesorabilmente a gravi patologie spesso irreversibili, ma è fortemente sospetto di pregiudicare le possibilità di recupero da parte di psicotici anche gravi: possibilità che con un management più appropriato sono dimostratamente consistenti e che con la neurolettizzazione intensa e prolungata vengono bruciate.

In secondo luogo, una volta diventati poco redditizi i neurolettici di prima generazione, come la clorpromazina (Largactil) l’aloperidolo (Serenase), è iniziata la fioritura di prodotti di generazioni successive, basata sui risultati di sperimentazioni cliniche che apparentemente ne dimostravano la maggiore efficacia e la minore tossicità. Negli anni più recenti, tuttavia, una serie di approfondite analisi ha in buona parte smentito tali risultati, frutto di forzature metodologiche non sempre effettuate in buona fede. (Due esempi ben noti di tali smentite: i lavori di J. Geddes et al. su British Medical Journal 2000, v. 321, pp. 1371-6, e di J.A.Lieberman et al. su New England Journal of Medicine 2005, v. 353, pp. 1209-23). Per quanto riguarda la nocività dei prodotti, occorre aggiungere che la apparente minore tossicità dei più recenti, come l’olanzapina e il risperidone, è legata soprattutto a una minor frequenza di alcuni degli effetti collaterali più vistosi, come i disturbi motori di natura extrapiramidale. In parallelo, tuttavia, si è verificato un disastroso aumento di disturbi metabolici (soprattutto obesità incontrollabile e diabete), i quali creano un grave rischio di riduzione della durata e qualità di vita.

Ma la storia non finisce ancora qui. Infatti, sin dai primi anni di vita dei neurolettici si è iniziato a estenderne l’uso dal trattamento legittimo – a certe condizioni, come si è accennato – di pazienti con psicosi gravi, ad altre categorie di soggetti: in particolare disabili mentali, non di rado in giovane età, con comportamenti considerati disturbanti, e anziani affetti dall’una o l’altra forma di demenza, con sintomi di agitazione e/o aggressività. Tale «soluzione» di problemi certamente spinosi ha fatto talmente comodo a talmente tante parti in causa che sono occorsi vari decenni prima che si impiantassero sperimentazioni ben controllate sulla reale efficacia degli antipsicotici in pazienti non psicotici: e non sorprendentemente, i risultati sono stati negativi, cioè per esempio nei disabili mentali i neurolettici non sono risultati più efficaci del placebo ai fini del controllo dei comportamenti aggressivi (P. Tyrer et al. su Lancet 2008, v. 371, pp. 57-63).

L’ultima puntata di questa storia è già nota ai lettori di Fuoriluogo, grazie alle recenti note di Henri Margaron (25 maggio) e di Susanna Ronconi (29 giugno). Si tratta della proposta di una sperimentazione multicentrica per il confronto, in soggetti consumatori di cocaina, tra un neurolettico di una generazione più recente (l’aripipradolo) e un agente dopaminergico ad azione antiparkinsoniana (il ropinirolo) – una sperimentazione i cui rischi tossicologici sono piuttosto elevati, mentre la probabilità di un beneficio terapeutico appare assai remota, a parte le connotazioni medicalizzanti di una tale strategia. E per giunta, tra i tanti neurolettici di prima e seconda generazione ampiamente sperimentati per decenni in un grandissimo numero di soggetti, la scelta è caduta proprio su di un prodotto di più recente introduzione: ma, ahinoi, l’aripipradolo ha già ricevuto una valutazione sostanzialmente negativa in una minuziosa meta-analisi (di ben 59 pagine a doppia colonna) condotta dagli esperti del prestigioso sistema Cochrane (H.G. El-Sayeh e C. Morganti, Cochrane Database of Systematic Reviews, 2006, Issue 2, Art No. CD004578).
Da tempo immemorabile chi non collabora a nascondere tali scomode verità viene stigmatizzato dalle parti interessate come pericoloso estremista, usando con come «nihilista terapeutico» o nei paesi anglosassoni «calvinista farmacologico» (cioè la falsa accusa di negare spietatamente misure che potrebbero lenire una sofferenza). Insomma, mutatis mutandis, lo stile del nostro Cavaliere e dei suoi tirapiedi rappresenta di certo una escalation, ma in fondo in fondo non è un’invenzione particolarmente originale.