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Curare/punire: questo il tema, assai pregnante, di uno dei “cantieri di lavoro” di Strada Facendo 3, il grande appuntamento di elaborazione sulle politiche sociali promosso dal gruppo Abele a Cagliari. Il dibattito nel “cantiere” (coordinato da me, Stefano Regio e Maria Grazia Giannichedda) è stato intenso, mi limito perciò a qualche spunto di riflessione.
Il senso del “punire” nella moderna visione securitaria. La parola “sicurezza” ha ultimato la parabola di rovesciamento di significato. Fino a qualche decennio fa evocava la “sicurezza sociale”, ossia quelle politiche pubbliche di welfare che dal dopoguerra in poi si sono sviluppate in Europa. Politiche di approccio “universalista”, che hanno promosso diritti sociali per tutti e sostegno ai più deboli per ridurre le disuguaglianze. Politiche di coesione sociale, in una parola. Oggi, “sicurezza” evoca politiche penali per difendere la main stream society da individui e gruppi sociali, percepiti come “socialmente pericolosi”. Politiche di intolleranza sociale, in una parola.
Si dirà (qualcuno l’ha ripetuto anche a Cagliari) che la solidarietà non c’entra, che si tratta di “rispetto della legalità”. Non è vero, anzi faccio notare che gli atti più simbolici delle campagne sicuritarie lanciate da alcuni sindaci sono contro le leggi vigenti. Così è per l’ordinanza del Comune di Firenze con misure a carattere penale contro i lavavetri, bocciata (per ben due volte) dalla Procura della Repubblica. Perché si vorrebbe equiparare a reati le cosiddette “condotte disordinate”, i disorderly behaviours (dei drogati e degli accattoni, delle prostitute e degli “illegali”). Gente che – si lamenta qualcuno – offende il nostro “decoro”. Dimmi come parli e ti dirò chi sei.
Il “rispetto della legalità” è invocato anche da un’ampia schiera di paladini della morale pubblica: quelli che l’altro ieri hanno tuonato contro l’indulto («nessun sconto a chi ha commesso un reato»); quelli che ieri «fuori gli ex terroristi dagli incarichi pubblici»; quelli che oggi «via i condannati dal Parlamento». Magari in nome della giustizia «contro i potenti». È bene non farsi ingannare: ciò che accomuna questi proclami è l’idea di pena, che non ha più di vista il reinserimento del condannato, anzi lo aborre. La pena non si estingue, diventa marchio, stigma morale per sancire l’allontanamento perpetuo del condannato dal consesso civile. La lettera scarlatta, insomma. Ancora un movimento di espulsione sociale e un’idea di “legalità” assolutamente al di fuori del dettato costituzionale.
Cura e custodia. Dopo l’abolizione dei manicomi, l’unica istituzione di cura e custodia che rimane è l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Ma la cultura manicomiale persiste: ne sono tristi esempi alcune residenze per anziani che applicano la contenzione (certi medici arrivano a prescriverla sul ricettario del Servizio sanitario nazionale, si è detto); così come le “alternative terapeutiche” per detenuti tossicodipendenti da “scontare” agli arresti in comunità (così il dettato della legge Fini Giovanardi). Quanto all’Opg, l’augurio è che si inizi dalle buone pratiche (per spianare la strada – si spera – ad una buona legge): le regioni riportino sul territorio gli internati giudicati non più pericolosi; i servizi si impegnino a fornire valide cure in carcere ai condannati con problemi di salute mentale. La Sardegna lo sta facendo e gli internati negli Opg si sono ridotti di oltre un terzo.