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Sempre mi chiedo, quando leggo o ascolto interventi sul problema della giustizia, perché tra i politici, in Italia, nessuno dimostri di aver letto quel testo straordinario di autore italiano che su questi temi ha scritto cose di una profondità che difficilmente può essere sondata. Mi riferisco a Cesare Beccaria e al suo “Dei delitti e delle pene”, opera del 1746 che in un centinaio di pagine tenta di spazzare via secoli di pregiudizi e luoghi comuni che purtroppo ostinatamente resistono. Anche per quanto riguarda il dibattito sulle droghe, leggere o pesanti che siano, non posso fare a meno di ricordare il giudizio tagliente che Beccaria dava di tutti coloro che pensano di poter modificare i costumi con la legge e la repressione: “Nelle infinite e oppositissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsele dalle leggi umane i turbamenti e il disordine. Eppure questa è la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano. Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possano nascere, ma egli è un crearne dei nuovi, egli è un definire a piacere la virtù e il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l’uomo dall’uso dei suoi sensi”. I tentativi dei neo-tradizionalisti di appellarsi alla continenza appaiono patetici più che reazionari. I moralisti che attaccano la cultura permissiva hanno ben poco da dire sulla qualità della vita che viene oggi offerta agli adolescenti; su una cultura che impone ai giovani di correre – non importa se tu sia leone o gazzella, comincia a correre – vale a dire consumare quante più cose-azioni-libri-giornali-amori-lavori-esperienze possibili nel più breve tempo possibile, e che poi si appella alla loro responsabilità penale quando corrono da un’altra parte o, peggio, quando non riescono proprio a mettersi a correre. Una cultura che non sa indicare come meta altro che il consumo, e che però si precipita a punire dei consumi perché non sono eticamente compatibili, perché non rispettano la dignità della persona, perché favoriscono il suo abbrutimento. Ma quale è l’eticità del consumo di capi di abbigliamento, creme di bellezza, pillole per la restituzione della virilità perduta? La logica è sempre la stessa: un modo per risolvere anche simbolicamente problemi di appartenenza, di identità, di socialità mancata che possono sempre diventare patologici. Il problema è che quando e dove si manifesta il tentativo di dettare le regole anche della vita privata è perché la macchina politico-amministrativo-istituzionale è tentata dalla volontà di investimento delle coscienze, non avendo più altri strumenti per assicurare il controllo sociale. Nel tempo delle incertezze, delle insicurezze, del relativismo, dell’innovazione, della finanziarizzazione, della mondializzazione gli strumenti del controllo sociale dovrebbero essere quelli della partecipazione, della solidarietà, della individualizzazione, della creatività, del rischio non certamente quelli della regressione in nome di valori continuamente negati. Anche a sinistra sembra prevalere l’ottica dell’efficienza rispetto a quella della libertà. Oggi la battaglia è sempre più minimalista: riduzione del danno. Ma di quale danno stiamo parlando? Quello individuale, quello sociale, quello produttivo? Il danno vero che si vuole ostinatamente tenere celato è quello di un modello di società e di vita dove il consumo è il dio nascosto che tutto regge e governa. Con buona pace di chi per rivendicare uno spazio di libertà è costretto o a nascondersi o a vergognarsi e a rischiare il discredito sociale, o a inventarsi spazi, spesso improbabili, di sopravvivenza.

Amato Lamberti Presidente Provincia di Napoli