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Dopo quasi quattro anni dalla sentenza n. 438/1995 della Corte costituzionale sta per tagliare il traguardo definitivo alla Camera una nuova disciplina sulla esecuzione della pena e delle misure cautelari per soggetti portatori di AIDS. Come noto, la materia era stata regolamentata con la legge n. 222/1993, che aveva escluso il carcere, sia in sede cautelare che in via definitiva, per le persone “affette da infezione da HIV in situazione di incompatibilità con lo stato di detenzione”. Ma la disciplina non aveva retto al controllo di costituzionalità e la Corte aveva dichiarato illegittimo il divieto di custodia in carcere “nelle ipotesi in cui l’applicazione della misura cautelare o della pena possa avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e di quella degli altri detenuti”. Di qui incertezze interpretative e disparità di trattamento che hanno reso necessario un ulteriore intervento legislativo. La nuova disciplina conferma il generale divieto di carcerazione, prevede un ampio ricorso agli arresti domiciliari in strutture ospedaliere o protette, consente la concessione dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare senza limiti di pena, ammette il ricorso al carcere solo in caso di commissione di gravi delitti commessi dopo l’applicazione delle misure non detentive (ma non “quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili e alle terapie curative”). Dunque un aggiustamento della disciplina esistente, improntata – una volta tanto – al prevalere delle ragioni umanitarie su quelle repressive. Non anche il segnale di una nuova strategia di intervento. Ciò impone due considerazioni. Primo. Secondo i dati forniti dal Ministero della giustizia, dal 1993 ad oggi hanno usufruito del trattamento di favore di cui alla legge n. 222/1993 circa 840 detenuti affetti da HIV ogni anno, mentre altri 320 soggetti attualmente in carcere potranno avvalersi delle misure alternative previste dalla nuova normativa. Considerando che il numero dei detenuti sieropositivi accertati (la precisazione è d’obbligo ché il test, volontario, per l’accertamento del virus HIV è effettuato, all’ingresso in carcere, solo nel 35% circa dei casi) oscilla sui 2.000, la disciplina può ritenersi adeguata, pur se da monitorare nella fase applicativa (anche con riferimento ai tempi). Secondo. La sieropositività in carcere continua a riguardare, nell’85-90% dei casi, tossicodipendenti, cioè la quota più rilevante della popolazione carceraria (30%). Su questo grande numero l’iniziativa politica, dopo le speranze seguite alla conferenza di Napoli e ad alcune caute aperture del governo, continua ad essere totalmente assente. Eppure i dati sono univoci. Ad essere punita con il carcere, pur dopo il referendum, resta la condizione di tossicodipendenza: non più in via diretta (con la rilevanza penale del consumo), ma con un sistema che non offre al tossicodipendente alternative al mercato illegale ed ai comportamenti delittuosi con esso connessi (inserimento nel mercato come consumatore-piccolo spacciatore, reati contro il patrimonio per l’acquisto della sostanza, marginalizzazione sociale ed attrazione nell’area della devianza, etc.). Così il carcere acquista sempre più, come è stato detto, la funzione di “discarica sociale”. Una strategia diversa è possibile: non un’impraticabile liberalizzazione in un solo paese, ma depenalizzazioni mirate, politiche di tutela della salute anziché di controllo penale, sperimentazioni, pratiche coraggiose di riduzione del danno. Altrove è una strategia (cautamente) praticata; per noi è l’ennesima occasione perduta della sinistra.