Tempo di lettura: 6 minuti

I sostenitori della proposta governativa di modifica dell’attuale legislazione antidroga affermano che questa rappresenterebbe la cosiddetta “terza via fra proibizionismo e antiproibizionismo”: destinata non tanto a reprimere quanto a curare gli assuntori di droga nell’unica agenzia terapeutica considerata degna di questo nome, la comunità. La comunità terapeutica diventa perciò il perno del nuovo sistema prefigurato, in quanto trattamento drug free in opposizione ai servizi pubblici dispensatori di “droga di stato”; ma anche come struttura privilegiata per i programmi in alternativa al carcere e per quelli previsti per i semplici consumatori, in aggiunta alle sanzioni per il consumo. Inoltre, l’omologazione di ogni modello di consumo e di ogni sostanza a “tossicodipendenza” è destinato, nell’intenzione del legislatore, ad aumentare l’utenza delle comunità. Una proposta lusinghiera per il privato sociale, almeno a prima vista. Eppure le reazioni alla ventilata nuova legge non sono così entusiastiche: a cominciare dalla netta presa di posizione contraria del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, il più grosso cartello di associazioni del privato sociale cui fanno capo 700 comunità. Abbiamo cercato di approfondire le ragioni del dis-senso attraverso uno scambio di idee con alcuni dirigenti di associazioni che gestiscono comunità: Maria Stagnitta dell’Associazione Insieme del Mugello fiorentino, Armando Zappolini della Comunità Aperta Pisana, Luigi Giovannoni di Soggiorno Proposta di Ortona, Giuseppe Pacini del Ceis di Lucca. Non più solo comunità Già dalla presentazione dell’attività di questi gruppi, ci si accorge che siamo di fronte ad una pluralità di servizi e programmi, ben oltre la comunità, anche se di regola questa ha rappresentato negli anni ‘80 il primo nucleo operativo dell’esperienza di volontariato. Così l’Associazione Insieme gestisce fra l’altro, oltre una comunità tradizionale, una struttura di pronta accoglienza, cooperative sociali di inserimento lavorativo, un centro diurno a bassa soglia a Firenze. La comunità di don Armando ha differenziato le tipologie (a quella originaria di Lari, si è affiancata quella di Doccio di Bientina), e lo stesso ha fatto il Ceis di Lucca, con una comunità per coppie e un’altra per ragazze madri; nonché altri programmi residenziali per alcolisti in appartamenti, e una galassia di percorsi diurni con inserimento lavorativo per ex tossicodipendenti. Quanto a Soggiorno Proposta, che festeggia quest’anno il ventennale della fondazione con i suoi tre centri comunitari, il gruppo sta proiettando sempre più la sua attività sul territorio con un centro di pronto intervento per consulenze alle scuole e alle famiglie e interventi rapidi di sostegno per giovani in condizione di emarginazione. Differenziazione degli interventi, proiezione sul territorio, e, ancora più importante, integrazione col servizio pubblico. Una realtà ben diversa dalla vecchia contrapposizione pubblico-privato degli anni ‘80, che fa da sfondo alla proposta Fini. Le ragioni di questa evoluzione sono molte, non ultima la presa d’atto che la comunità non può essere la risposta (unica) al problema della tossicodipendenza. In questi anni si è preso atto che molte persone, una volta terminato il programma, ricadono nella tossicodipendenza. «Se c’è solo la comunità, la cosiddetta recidiva è vissuta come un fallimento – spiega Giuseppe Pacini – ma può essere una crisi superabile in presenza di un sistema complesso di servizi. A volte persone che interrompono la comunità vengono accolte nelle nostre cooperative di lavoro, con un programma di inserimento territoriale». Oppure, come risulta dall’esperienza del centro di prima accoglienza del Mugello, sempre più soggetti vengono lì inviati dal Sert per una “tregua” dalla strada, non necessariamente finalizzata ad un successivo periodo in comunità. L’integrazione fra servizi pubblici e privati è perciò la logica conseguenza dell’aumento dell’offerta terapeutica, per offrire alle persone più percorsi, a differenti “soglie”, per i quali sia possibile transitare a seconda dei particolari bisogni nei particolari momenti della vita. Integrazione versus sequestro sociale La finalità di questo sistema o rete di servizi è la promozione umana intesa come integrazione sociale della persona, che «arriva in comunità dal territorio ed è lì che deve ritornare», precisa Armando Zappolini. In questa sottolineatura della “comunità aperta alla comunità (territoriale)” si avverte l’originaria ispirazione del volontariato di autoaiuto (le pratiche informali di cura) contro quelle formali, istituzionalizzanti e patologizzanti. Un approccio comunitarioterritoriale (community based, dicono gli anglosassoni), diffidente verso una visione clinica individuale, che perda di vista l’interazione fra soggetto e ambiente. Lo stesso che negli anni ‘70 ha rivoluzionato la psichiatria e portato alla chiusura dei manicomi, e che, nel campo della droga, ha cercato di contrastare una lettura centrata sulla dipendenza come “malattia”. È esplicito Pacini: «Il problema non va separato dal territorio, perché la “patologia” è anche di un territorio». Con queste premesse culturali, vinte le antiche diffidenze verso le istituzioni sanitarie, è stato facile evolvere verso una collaborazione col pubblico. «La sanità pubblica, spiega Maria Stagnitta, è l’unica che può garantire la continuità nella presa in carico della persona tossicodipendente. Il privato, per sua natura, è destinato a integrare». Qui sta la prima ragione dell’opposizione alla centralità della comunità quale ipotizzata dalla proposta Fini, poiché snaturerebbe il modello comunitario. Si prefigura cioè una comunità di “contenimento del disagio”, o, peggio, di controllo. È duro Luigi Giovannoni: «La proposta persegue una sua logica di internamento, con la previsione di trattamenti pressoché coatti». Il “sequestro” dei consumatori dal loro contesto di vita è la logica conseguenza dell’accentuazione della loro “incompatibilità” sociale. L’inasprimento delle sanzioni per il consumo, ad esempio, tende a rendere impossibile una quotidianità “normale”: così una ricaduta, magari episodica, viene sancita come inabilità permanente. Tornando alla vita delle comunità oggi, c’è da chiedersi se la flessione degli ingressi negli ultimi anni non sia la spia di una crisi del modello. È quanto ammettono anche i sostenitori della linea intransigente, che addebitano però il calo al proliferare di offerte non drug free. Ben diversa è l’interpretazione di Maria Stagnitta, che ritiene la comunità “meno credibile” di un tempo. Le ragioni stanno nell’indebolimento delle esperienze collettive che avevano un senso per le generazioni degli anni ‘70 e ‘80, mentre oggi l’accento si è spostato radicalmente sull’individuo. «Le persone vengono solo per cercare soluzioni ai loro problemi particolari – commenta Maria – cercano poco la mediazione col gruppo, che spesso è visto come un ostacolo». Si indebolisce cioè la pratica di autoaiuto su cui si è fondata la comunità, e le persone percepiscono la proposta come ultima spiaggia, quando sentono di non avere altre alternative. D’altra parte, l’età media degli ospiti è aumentata: vent’anni fa era sui 28 anni, oggi è sui 35. Sono persone che hanno alle spalle già diverse esperienze di comunità e le “ricadute” pesano. Per Armando Zappolini, le comunità sono legate ai consumi di eroina, ma sono «inadeguate per altri stili di consumo». E chiarisce: «La comunità è un intervento chirurgico ed è positivo che si utilizzino anche altre terapie che non richiedono interventi chirurgici. Per altri tipi di consumo, sono adatti percorsi di accompagnamento, non residenziali». Si ritorna alla logica già esposta della differenziazione degli interventi, tanto più utile a fronte di consumi sempre più differenti. Omologati tutti i consumi? Eppure, la proposta governativa spinge esattamente in direzione opposta, verso l’omologazione di tutti i tipi di consumo, visti come patologia da espungere. Nel mirino sono i consumi giovanili, specie quelli di canapa. La previsione di lunghi soggiorni in comunità anche per questi consumatori rappresenta la novità più reclamizzata della legge preannunciata. «Da noi si discute apertamente di questo coi ragazzi – dice Luigi Giovannoni – ma i più non accettano di mettere sullo stesso piano tutte le droghe e tutti i consumi». È vero però che alcuni genitori bussano alle porte della comunità perché il ragazzo si fa le canne ed esagera con la birra, precisa ancora: «La proposta punitiva viene incontro al perbenismo di molti genitori, che vogliono essere rassicurati ». D’altro lato, un percorso educativo è per sua natura un percorso condiviso, estraneo alla punizione e alla coazione. Su questo il privato sociale gioca la sua credibilità, e Stagnitta giunge a ipotizzare l’obiezione di coscienza al ricovero dei semplici consumatori di canapa, qualora la legge fosse approvata: una forma di protesta civile contro chi vorrebbe le comunità complici della criminalizzazione degli stili di vita giovanili. A parere di concorde di tutti, la proposta Fini sembra fare piazza pulita di tutte le esperienze più innovative per perseguire un disegno generale di recinzione e contenimento del disagio. Insomma, il governo cavalca la tigre della “pulizia sociale” (Giovannoni). Più articolata l’analisi sui vuoti di iniziativa che hanno spianato la strada alla controffensiva proibizionista. In primo luogo, l’integrazione degli interventi e la centralità del pubblico sono processi rimasti in mezzo al guado. Ad esempio, diverse Regioni stanno procedendo all’accreditamento delle strutture private. In linea di principio, la misura vorrebbe offrire maggiore garanzie di competenza e affidabilità dei servizi ai cittadini. Ma i supposti requisiti di qualità rischiano di tradursi in una sovrabbondanza di regole e procedure burocratiche che appesantiscono e irrigidiscono gli interventi, mentre rimane carente la programmazione sociosanitaria (Stagnitta, Giovannoni). Così il privato “accredita” alcuni servizi, senza sapere ciò di cui veramente abbisogna il territorio. Il pubblico cioè è ancora carente nella programmazione, l’attività che gli compete in esclusiva e lo caratterizza; spesso impegnato solo a difendere la gestione diretta dei propri servizi. Ma c’è chi avanza una motivazione più politica. «Abbiamo abbassato troppo la guardia – commenta Pacini – dobbiamo sostenere i diritti dei tossicodipendenti contro chi vuole considerarli cittadini dimezzati. È necessario, se vogliamo restare aderenti alla nostra missione: promuovere la centralità della persona».