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Questa pagina affronta le delicate questioni sollevate dalla proposta di riforma del codice penale della cosiddetta “Commissione Pisapia” sugli Ospedali psichiatrici giudiziari e più in generale sui soggetti “non imputabili”. Nell’intento condivisibile di superare gli Opg, la commissione ha proposto che gli autori di reati affetti da disturbi mentali siano «curati e controllati» in strutture sanitarie. Si propone cioè la “sanitarizzazione” della pena (la medicalizzazione della devianza?), ovvero la sostituzione della pena con una forma di terapia coatta (formula che meglio risponde alle intenzioni del riformatore). Rimane inalterato il principio di non imputabilità, conseguente all’assunzione che il reato sia stato commesso da persone non responsabili. Anzi, detto principio si allarga, fino a comprendere i soggetti che abbiano agito «sotto intossicazione da alcol e da sostanze stupefacenti»: che dunque non sarebbero più incarcerati per consumo al di sopra delle dosi stabilite dalla Fini-Giovanardi, oppure per spaccio, rapina e quant’altro; bensì sottoposti a misure di «cura e controllo» in strutture terapeutiche, presumibilmente in comunità.

La soluzione non è nuova: il governo britannico, ad esempio, ha da tempo introdotto i Drug and Testing Orders, ovvero “ingiunzioni terapeutiche” comminate direttamente dal giudice in sede di processo. Tanto meno è fresca l’idea che sia la droga a “causare” il comportamento (delittuoso) del “drogato”. Come spiega Stanton Peele, nel bellissimo testo di storia e teoria delle droghe (The meaning of addiction), la concezione tradizionale di tossicodipendenza presuppone che una serie di fenomeni biologici legati alla sostanza (tolleranza, astinenza e craving) non diano all’organismo altra scelta che comportarsi in maniera stereotipata. Scendendo all’immaginario popolare, suscita esecrazione/commiserazione il tossico che scippa la vecchietta perché non può fare a meno della dose. Proprio l’anomalia comportamentale del “drogato” spiega la storica associazione col malato di mente, tanto più viva oggi con l’ossessiva focalizzazione sulla “doppia diagnosi”.

La solidità scientifica di tale concezione (così come della “coazione terapeutica”) è più che dubbia. Tuttavia, in quanto rappresentazione sociale, essa serve egregiamente ad un duplice scopo: da un lato sorregge la proibizione, in virtù della supposta pericolosità intrinseca della droga; dall’altro, paradossalmente ma non tanto, la medicalizzazione offre un’alternativa umanitaria al rigore punitivo.

Il dilemma, anche etico, non è dappoco. Se viene meno la battaglia per superare le strategie antidroga ad alta penalità, se si appanna, anche nei riformatori, l’idea che sia soprattutto la proibizione (più che la chimica) a spingere il consumo in un contesto criminale; come far sì che i consumatori non paghino fino in fondo il conto salato delle norme criminogene che non vogliamo/non possiamo cambiare? Carcere versus ricovero coatto, perdere l’anima per salvare il corpo, la dignità umana non ha prezzo, quella del tossico chi lo sa.