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“Drogarsi non è un diritto”: con queste impegnative parole il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha risposto, nella seduta del 14 gennaio 1998 della Camera dei Deputati, a una interrogazione dell’on. Giuliano Pisapia, il quale, forse più modestamente, si era limitato a chiedere l’opinione del governo sulla opportunità di “sperimentare, accanto agli indispensabili interventi di prevenzione, di educazione, di reinserimento, nuove strade, ivi compresa la somministrazione, sotto stretto controllo medico, di sostanze stupefacenti”. La frase di Prodi è sicuramente suggestiva e di grande effetto, ma, a una analisi ragionata, da un lato, si rivela non del tutto aderente ai temi posti nella interrogazione, e, dall’altro, sembra alludere, pur non sposandola esplicitamente, a una concezione non condivisibile del ruolo dello Stato nei confronti del problema della tossicodipendenza. Affermare la esclusione dal novero dei diritti di comportamenti, quali l’assunzione di droghe, lesivi della propria salute può essere, infatti, anche condivisibile, se non addirittura banale. Il problema è, però, se tali comportamenti possano essere considerati illeciti, e cioè se possa configurarsi un dovere di non drogarsi, un dovere di non attentare alla propria salute, la cui violazione sia assistita da una sanzione. La questione, come tutti ricordano, fu lungamente presente nella discussione sulla approvazione della legge n. 162 del 1990, e nella quale alla fine prevalse la tesi craxiana, secondo la quale ciò che è male, va punito. Una tesi che trova il suo fondamento in una evidente confusione tra diritto e morale, comune alle culture premoderne e autoritarie, e che in gran parte è stata superata. In Italia, ad esempio, non è punito il tentativo di suicidio, mentre la mutilazione della propria persona (articolo 642 codice penale) è punita solo se finalizzata a frodare un’assicurazione. E, ciononostante, nessuno probabilmente si sentirebbe di affermare che in Italia esiste un diritto al suicidio o un diritto alla mutilazione del proprio corpo. Nel campo della droga, invece, questa confusione tra diritto e morale permane in quasi tutti i Paesi, e sembra affiorare anche nelle parole del presidente del Consiglio. Ciò è probabilmente dovuto in parte al valore di discriminante politica e ideologica che la questione ha impropriamente assunto e in parte alla paura e al senso di impotenza di fronte a un fenomeno così complesso, che induce i governanti a cercare rifugio nel tranquillizzante binomio divieto/punizione. Con il risultato che una delle più complesse questioni sociali del nostro secolo è stata ridotta a questione criminale, così aggiungendo danno al danno, sofferenza a sofferenza. E questo spiega anche l’atteggiamento di molti nei confronti della somministrazione controllata che, come in un dialogo tra sordi, viene da un lato proposta come una possibilità di cura, di trattamento, di riduzione del danno, e dall’altro viene respinta come forma di liberalizzazione del consumo o di normalizzazione del fenomeno. La speranza è che, al di là dell’enfasi di una espressione infelice, l’impegno del presidente del Consiglio per un confronto e una verifica sulle esperienze in atto a livello internazionale possa portare a una minore sordità e a una maggiore apertura verso tutte le possibilità di riduzione del danno.