Tempo di lettura: 5 minuti

Lo scorso settembre si è svolto a Londra un convegno internazionale sulla regolamentazione della cannabis, promosso dal Lindesmith Center di New York e dall’organizzazione inglese Release. L’articolo che pubblichiamo esplicita bene l’obbiettivo che si prefiggeva il convegno, ovvero di ricercare una più vasta gamma di strategie intermedie fra la legalizzazione e la completa proibizione. Sebbene questo contributo sia assai stimolante per la panoramica internazionale che offre, il lettore italiano va avvertito che molte delle opzioni presentate sono incompatibili col sistema penale italiano. Poiché nel nostro sistema vige l’obbligatorietà dell’azione penale, sarebbe ad esempio impossibile perseguire una politica di “tolleranza” da parte della polizia nei confronti di condotte che la legge individua come reati (com’è nel caso del modello olandese).

Quando si dibatte di politiche sociali, generalmente si specificano chiaramente gli obbiettivi che si vogliono perseguire. Quando invece si discute della politica delle droghe, questo avviene raramente. Troppo spesso gli obbiettivi sono di natura globale (per esempio la riduzione del consumo di stupefacenti) o utopistici (eliminare del tutto il consumo), in modo tale da prestarsi a molteplici interpretazioni. Analogamente, gli obbiettivi sono spesso stabiliti in modo tale da poter essere conseguiti seguendo diverse e perfino contraddittorie strategie, nonché con costi assai diversi.

Perciò è opportuno essere il più espliciti possibile riguardo agli obbiettivi della politica sulla cannabis, definendo le politiche e le opzioni legislative, il legame fra queste e la concreta attuazione. Partendo da due premesse: le considerazioni che si fanno a proposito di un particolare regime di controllo per una sostanza, molto spesso non sono adatte per controllarne un’altra, poiché sono diversi gli effetti dannosi causati dalle varie sostanze; secondariamente il dibattito sulle conseguenze del consumo non dovrebbe essere influenzato da considerazioni di ordine etico e dunque gli obbiettivi delle misure che si intendono adottare dovrebbero essere realistici.

Anche per la cannabis dovremmo dunque specificare i danni che si intendono ridurre, tenendo conto che, parlando di riduzione del consumo, sono importanti non solo i livelli del consumo stesso, ma anche i modelli di assunzione (uso e abuso). Fra i danni vanno contemplati anche quelli causati dai regimi di controllo, che in ogni caso non dovrebbero superare i danni che quegli stessi regimi vogliono combattere. Infine, le misure volte a scoraggiare il consumo di cannabis dovrebbero dimostrare la loro efficacia, in caso contrario dovrebbero essere modificate. Più in generale, ogni politica che si intende adottare dovrebbe tener conto dell’evoluzione dei fenomeni nel campo delle droghe ed essere quindi aggiornata di conseguenza.

L’applicazione di questi princìpi in un determinato contesto dovrebbe condurre allo sviluppo di espliciti obbiettivi che le politiche relative alla cannabis intendono conseguire. È verosimile che si dovranno attribuire priorità tra gli obbiettivi possibili, poiché nel campo delle droghe spesso si perseguono mete impossibili.

QUALE TIPO DI REGOLAMENTAZIONE?

Il dibattito sulle politiche per la cannabis si arena troppo spesso in un punto morto, tra sostenitori della legalizzazione e proibizionisti: l’opinione pubblica finisce con l’adottare posizioni estreme e non c’è comunicazione. Per superare lo stallo, si può esplicitare un più ampio spettro di opzioni politiche esistenti in materia. Se si guarda alle inchieste già effettuate, da quella canadese “Le dain” del 1972, a quella del Sud Australia del 1978 “Sackville”, all’altra inchiesta australiana “National Task Force on Cannabis” del 1994, si ricavano diverse possibili scelte per la cannabis:

– una proibizione integrale accompagnata da misure più o meno radicali di penalizzazione;

– una proibizione di legge, ma con una decisione amministrativa di non perseguire nella prassi tutte o determinate condotte che nella legge si configurano come reato;

– una proibizione legislativa, ma con una decisione amministrativa di tutelare alcune categorie di rei, sottoponendoli a programmi di disintossicazione anziché a misure penali;

– una proibizione con sanzioni diverse dalla detenzione in carcere, per esempio con provvedimenti pecuniari mirati;

– una proibizione parziale, vale a dire il mantenimento delle sanzioni penali per taluni comportamenti (per esempio lo spaccio) e la depenalizzazione di altri comportamenti (come il possesso di modiche quantità di sostanza);

– una regolamentazione, cioè l’attività di agenzie governative o di agenzie autorizzate dallo stato, responsabili del controllo sulla produzione, sulla distribuzione e sulla vendita della sostanza, in un regime simile a quello vigente per gli alcolici, il tabacco e le armi da fuoco;

– la liberalizzazione, ovvero la completa assenza di controlli, nonché di previsione di reati in materia.

L’ESPERIENZA OLANDESE E AUSTRALIANA

L’approccio olandese ha destato un considerevole interesse internazionale, poiché ha introdotto una differenziazione tra le diverse sostanze a seconda del loro potenziale dannoso. Si è così applicata una politica ufficiale che, per decisione amministrativa, rinuncia a perseguire penalmente taluni reati minori correlati alla cannabis (vendita e detenzione di piccole quantità di sostanza). Questa opzione è stata esaminata a fondo in Australia tre o quattro anni or sono, ma, seguendo il parere dei consulenti giuridici del governo australiano, si è giunti alla conclusione che non fosse praticabile nel Paese, perché non coerente con la sua tradizione giuridica. In particolare, si è ritenuto che sarebbero sorte gravi complicazioni qualora si fosse consentita una discrepanza fra il dettato della legge e un’eventuale direttiva alla polizia, decisa per via amministrativa, di non applicare, sia pure in determinate circostante, tale legge.

Da allora, comunque, le cose sono cambiate. Con il consenso dei governi di alcuni stati, un certo numero di servizi di polizia hanno cominciato a praticare politiche di non applicazione della legge penale, seguendo varie modalità. Il che dimostra che il sistema normativo può essere flessibile e che le politiche, le leggi e la loro applicazione possono spesso non essere in sintonia.

LA “COLONIZZAZIONE” DEL PROIBIZIONISMO

Vi è un preoccupante conflitto tra le politiche prescelte in diversi Paesi, che mirano a reprimere i coltivatori e i trafficanti su larga scala, anziché i consumatori e i piccoli spacciatori, e le politiche emergenti in altri, in particolare quelle della “tolleranza zero”.

Il nocciolo della “tolleranza zero” è la soppressione della discrezionalità dei funzionari di polizia sul perseguire o meno un reato di cui vengano a conoscenza. Gli stati o le comunità locali possono facilmente trovarsi in una situazione in cui si decide a livello politico di perseguire solo i reati di grande entità, mentre al contrario la polizia locale applica la politica di “tolleranza zero”, colpendo anche i reati minori (compreso il possesso e il consumo di cannabis).

Gli obbiettivi dichiarati quando si sceglie la “tolleranza zero” sono, in generale, quelli di ridurre la criminalità, l’allarme sociale, le turbative all’ordine pubblico. Quando i reati minori e l’ordine pubblico sono gli obbiettivi principali, però, si sconfina facilmente nella violazione dei diritti umani. Vi è poi una peculiarità nei Paesi dell’Asia e del Pacifico, legati al traffico internazionale e che dipendono dalle risorse finanziarie dei fondi per l’assistenza ai Paesi in via di sviluppo.

Sia l’ONU che il governo degli Stati Uniti hanno adottato esplicite politiche per allineare gli altri Paesi all’approccio proibizionista al fenomeno degli stupefacenti. Le norme contenute nei trattati internazionali, che riconoscono ai singoli Paesi un margine di autonomia legislativa e di applicazione delle leggi nel rispetto delle differenze culturali, sono generalmente ignorate. In questo contesto, è preoccupante che molti di quei Paesi abbiano incorporato le Convenzioni nella legislazione nazionale senza sottoporle a un attento esame critico e senza considerare l’opportunità di previsioni che si discostino dal proibizionismo totale, in conformità con le culture locali.

Nella regione dell’Asia-Pacifico (e presumibilmente anche altrove) funzionari della DEA (Drug Enforcement Administration) americana effettuano visite regolari e intrattengono colloqui con le agenzie e gli opinion leaders locali. In alcuni Paesi delle isole del Pacifico, per esempio, i funzionari della DEA hanno riferito ad alti funzionari di polizia e ai politici che i loro Paesi, in quanto firmatari delle Convenzioni, sono obbligati a perseguire penalmente il possesso e l’uso di cannabis e anche a introdurre la carcerazione obbligatoria per questi reati. Peraltro, molti Paesi di quelle regioni prevedono la pena del carcere per i consumatori di cannabis e ciò è fonte di corruzione per il sistema della giustizia, senza contare le disastrose conseguenze sul sistema carcerario. Questi stati, in genere, non dispongono delle risorse necessarie a sviluppare una propria legislazione originale sugli stupefacenti e perciò facilmente adottano pacchetti legislativi “pronti per l’uso” e contrastanti con l’approccio della riduzione del danno, offerti da questi “guerrieri della droga”.

* Centro nazionale di epidemiologia e sanità pubblica, Università nazionale australiana di Canberra