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Sono passati quasi tre anni dall’11 maggio 2017, l’antivigilia del trentanovesimo anniversario della legge Basaglia, giorno in cui l’ultimo internato uscì dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Tre anni che hanno visto l’assestamento degli effetti del loro superamento, l’emersione e la denuncia di criticità, tentativi falliti di revisione (parziale) del sistema delle misure di sicurezza. La ricerca e la riflessione sulla disciplina relativa al malato di mente autore di reato non si sono arrestate. In questo filone, si inserisce il convegno che si è tenuto all’Università di Trento il 31 gennaio e 1 febbraio, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza e dalla Camera Penale, sul tema “Infermità mentale, imputabilità e disagio psichico in carcere”, trattato in chiave multidisciplinare.

È superata quell’emergenza Opg, che nel 2012 spinse il legislatore ad una riforma repentina, ma lasciava il codice invariato. Oggi diventa necessario ricentrare l’analisi su alcuni aspetti cruciali, quali: i rapporti tra psichiatria e diritto; i concetti di imputabilità e pericolosità sociale; il doppio binario e le misure di sicurezza; il disagio psichico in carcere.

Gli psichiatri e gli psichiatri forensi presenti al convegno hanno evidenziato la discrezionalità e opinabilità dei giudizi di incapacità e pericolosità sociale, spesso influenzati, come rilevato da Stefano Ferracuti, da bias del perito, alimentati dalla vaghezza dei concetti giuridici ed acuiti, come osservato da Gabriele Rocca, dalla mancanza di linee guida e standard nella formulazione dei quesiti. La denuncia di incertezza che proviene dalla stessa psichiatria chiama i giuristi ad una nuova riflessione sul concetto di imputabilità e sul doppio binario, che incarna, come ci ricorda autorevolmente Francesco Palazzo, l’approccio autoritario del Codice Rocco. La riforma che ha superato l’Opg, ha delineato una disciplina efficacemente definita da Marco Pelissero «a metà del guado», che manca di definire un’organizzazione condivisa delle Rems, apre all’ibridazione penitenziario/sanitaria e mostra i suoi limiti applicativi nel numero crescente di persone in lista d’attesa e nell’uso smodato delle misure provvisorie; nonché, come ricordato da Antonia Menghini, nella mancata definizione della condizione del malato di mente autore di reato, con infermità sopravvenuta.

Di fronte a un quadro denso di problematiche, la discussione vira sulla proposta, non nuova, ma rilanciata in questi giorni da Franco Corleone, di abolire la distinzione tra imputabili e non imputabili per vizio di mente (contenuta nel testo “Il muro dell’imputabilità”). Proposta nobile – come osserva il prof. Palazzo – ed ideologica, in quanto guidata dall’alto principio di equiparazione del folle e del sano. Un disegno assiologicamente fondato – come rilevato da Pelissero – ma che suscita perplessità sul piano attuativo, per timore che possa prodursi l’appiattimento del trattamento psichiatrico sulla logica custodiale e di quello penitenziario su quella psichiatrica. L’abolizione della non imputabilità si fonda, come ricorda Corleone, sul riconoscimento di piena soggettività al malato di mente autore di reato e sul principio per cui “la responsabilità è terapeutica”; mentre il rischio di carcerizzazione del malato di mente autore di reato appare scongiurato dalla previsione di misure alternative (specifiche) al carcere e dalla maggiore attenzione alla salute mentale negli istituti penitenziari assicurata da una gestione esclusivamente sanitaria.

A fronte di posizioni favorevoli, contrarie o critiche, appare positivo che su una proposta, spesso considerata provocatoria e scandalosa, si apra finalmente una seria riflessione. Del resto, come ricorda nelle conclusioni Gabriele Fornasari, questa opzione non è estemporanea, ma presente in alcuni ordinamenti, come quello svedese.