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andrea-pugiotto.jpgLe motivazioni della sentenza n. 32, scardinando «il fulcro» della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, confermano «elementari principi di grammatica istituzionale» in ordine ai rapporti tra poteri nell’esercizio della funzione legislativa.

In linea con la propria giurisprudenza, la Corte costituzionale ci dice che non è possibile agganciare al treno in corsa del decreto legge una carrozza diversa da tutte le altre. Altrimenti, sulla tratta veloce e semplificata dell’art. 77 Cost., scorrerebbero vagoni che devono viaggiare sui binari ordinari del confronto parlamentare. E’ un disco rosso che vale anche quando il locomotore è un decreto legge «a contenuto plurimo»: come quello in esame, che originariamente si occupava di materie eterogenee.

Né la sua unica disposizione in tema di stupefacenti era un vagone su cui potessero salire i due articoli impugnati (su ventitré) della Fini-Giovanardi, perché differenti per materia, finalità e natura giuridica. Un conto, infatti, è occuparsi della persona tossicodipendente con una norma processuale che mira al suo recupero. Altro è sovrapporvi una disciplina penale sugli stupefacenti a fini repressivi.

La scelta normativa di parificare droghe leggere e pesanti, inasprendone il regime sanzionatorio, finisce così su un binario morto. Al suo posto rivivono le mai validamente abrogate norme della legge Vassalli-Jervolino, come emendate dal referendum del 1993 (di cui però, la sentenza tace).

Archiviata con soddisfazione la battaglia vinta a Palazzo della Consulta, vanno ora sciolti nodi giuridici intricati.

Di alcuni la soluzione è in sentenza. Sarà compito del giudice – si legge – impedire che nei processi in corso l’imputato subisca un trattamento più sfavorevole. Come anche individuare, tra le norme che rinviano ai due articoli annullati, quelle non più applicabili perché prive di oggetto. Quanto alla sorte di ciò che resta della Fini-Giovanardi, pare segnata: il vizio accertato in sentenza, infatti, contagia quella disciplina integralmente. Saranno però necessarie «eventuali ulteriori impugnative» delle disposizioni sopravvissute: facile a dirsi, meno a farsi, date le strettoie nell’accesso al giudice delle leggi. Il rischio è che, come morti viventi, continuino ad esistere norme certamente incostituzionali.

Di altri problemi, invece, la sentenza tace. Dalla loro soluzione dipende la sua concreta efficacia, ad esempio nei confronti di chi, condannato per la Fini-Giovanardi, sta scontando una pena definitiva. Sul giudicato penale prevale sempre il diritto alla libertà del detenuto, se il reato è incostituzionale. Qui, però, incostituzionale è solo la dosimetria della pena. A tale situazione va posto rimedio, per non aggiungere ingiustizia a quella, irrimediabile, di chi ha già scontato integralmente una pena costituzionalmente ingiustificata. Andrà allora ricordato che l’intangibilità del giudicato non è più un dogma. E che in passato l’annullamento di un’aggravante (quella di clandestinità) ha indotto la Cassazione a ordinare la ridefinizione della pena per gli stranieri detenuti, dando così sostanza al favor libertatis.

Più in generale, s’imporrà anche il ricalcolo dei termini di custodia cautelare e delle eventuali prescrizioni. Complicata è poi la stratificazione di norme (annullate, sopravissute, risorte) cui viene a sovrapporsi il reato di piccolo spaccio, introdotto dall’ultimo decreto Cancellieri, impregiudicato dalla sentenza n. 32.

Un quadro normativo così caotico rischia di lasciare morti e feriti sul campo. Per evitarlo, serve una riforma dell’intera materia. Urge, prima ancora, una legge di clemenza per il passato, coerente con la legalità sulle droghe che vogliamo per il futuro.