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La prima volta che entrai in un Istituto psichiatrico giudiziario – allora detto manicomio criminale – non era ancora giunto a un esito legislativo il dibattito critico sulla malattia mentale e sulla modalità con cui essa veniva regolata e trattata nella società italiana: il manicomio. La legge sull’abolizione dei manicomi non era ancora all’orizzonte, anche se forte era già il vento critico che aleggiava attorno ad alcune categorie di analisi, in primo luogo quella che fissava l’asse dell’intervento più sulla tutela dei presunti sani che sulle possibilità vitali dei presunti malati.
Il manicomio criminale non era altro, quindi, che l’epifenomeno di una situazione più ampia, luogo di sovrapposizione di due sistemi reclusori, quello rivolto alle persone con disagio mentale e quello rivolto alle persone colpevoli di reati. Come complemento, vi erano trattenute anche le persone non facilmente governabili nelle istituzioni detentive.
Il vento critico continuò a soffiare e si fece più robusto, fino a portare a un radicale mutamento del rapporto con la sofferenza psichica e alla sua presa in carico da parte del contesto sociale: la legge successivamente varata nel 1978 – la cosiddetta 180 – ha significato un’effettiva quanto rara riforma culturale e ordinamentale nel nostro paese, avaro di vere trasformazioni. E ha resistito negli anni, seppure tra mille attacchi e con diverse carenze attuative.
Ma, gli ospedali psichiatrici giudiziari non l’hanno seguita a ruota, come forse ci si sarebbe atteso. Sono rimasti inalterati, assediati dall’incalzare del concetto di pericolosità che si riteneva e si ritiene caratterizzare coloro che vi sono ristretti.
La categoria della pericolosità del resto pervade il nostro diritto penale “concreto”. Quello, per intenderci, che non trova spazio nella scienza giuridica accorta, quanto piuttosto in quella fusione tra opportunità politica e giustificazione giuridica che ricerca nel consenso diffuso la forma della propria legittimazione, inseguendo gli umori più bassi della collettività.
La pericolosità sociale è una categoria spuria, anomala, prima ancora di essere essa stessa pericolosa, perché contraddice i presupposti del diritto penale, soprattutto quello che tiene ben distinte colpevolezza e responsabilità e che ritiene legittima l’azione punitiva solo nei confronti di soggetti colpevoli in grado di comprendere il significato del fatto commesso. Al contrario, essa sposta l’attenzione dal fatto a una presunta prognosi sui futuri comportamenti del suo autore, a come egli è soggettivamente percepito dalla collettività e, quindi, alla richiesta che quest’ultima pone per sentirsi rassicurata. Il reato commesso non è considerato per ciò che è stato, ma anche come indizio di ciò che il soggetto potrebbe in avvenire commettere, finendo così non col sanzionare una condotta passata, bensì col prevenirne una supposta come futura. Da qui nascono le cosiddette misure di sicurezza, cioè forme di privazione della libertà spesso indefinite nel tempo e non strutturate attorno a quel sistema di garanzie che contorna l’esecuzione penale. Il nostro codice, a differenza degli altri paesi europei, ne ha una tradizione ormai quasi ottantenne – per bontà del guardasigilli Rocco che le introdusse nel ventennio.
Così le persone incapaci di intendere o di volere e dunque non imputabili, non sono prosciolte e basta, affidandole a interventi di cura, anche coattivi, ma comunque di responsabilità del servizio sanitario, bensì sono soggette a un intervento di carattere penale anche se di altro tipo: la misura di sicurezza, appunto, dell’internamento in una struttura psichiatrica di competenza del ministero della giustizia. La misura si applica anche a coloro che hanno una capacità di intendere o volere ridotta, dopo l’espiazione di una pena anch’essa ridotta. Non solo, ma il codice prevede la possibilità di determinare «i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato».
Nell’attuale fase di definizione di un nuovo codice penale è chiaro che un po’ d’ordine attorno a queste categorie spurie vada fatto. La direzione sembra essere quella di prevedere misure di cura e controllo che, sperando ovviamente che non si tratti di mere ridenominazioni, dovranno essere differenziate a seconda della causa della non imputabilità: dalle strutture terapeutiche protette a quelle finalizzate alla disintossicazione per i tossicodipendenti o gli alcolisti, al ricovero in comunità.
La delineazione della fisionomia di queste misure non è semplice e se molti punti delle ipotesi che si stanno avanzando sono condivisibili, è del tutto evidente tuttavia che la riflessione non può restringersi ai nuovi modelli organizzativi; deve investire i presupposti su cui esse si fondano, per evitare che ricadano nel gorgo culturale di chi vuole ogni intervento finalizzato alla rassicurazione e al consenso dei supposti “normali” a scapito dei diritti dei supposti “devianti”.
La questione più a rischio riguarda proprio l’estensione del principio terapeutico coattivo quando, in particolare, si tratti di consumatori di droghe o alcool. Non sfugge, infatti, la possibilità che l’attivazione di strutture non penali possa risolversi anche nell’affidamento a esse di un numero sempre maggiore di soggetti, venendo meno il freno che l’irrogare una misura penale porta con sé. La volontà rassicurante di punire i comportamenti e gli stili di vita più che i fatti compiuti potrebbe così riproporsi in forma medicale, attraverso l’estensione di luoghi sicuri a cui affidare le contraddizioni rimosse o i tanti stili soggettivi che si ritengono turbativi della sicurezza collettiva.
Piuttosto che verso il carcere diffuso, di cui parlava il buon Foucault, andremmo verso la clinica diffusa, dove la responsabilità, ormai medicalizzata, possa venire trattata con le stesse finalità che derivano da un non più enunciato, ma sempre vivo presupposto di pericolosità.
Non vi sono certamente antidoti a questo rischio: se non quello di non limitare il dibattito alla disciplina penale e alla tecnica giuridica, ma aprirlo a più voci disciplinari per costruire attorno a esso nuove consapevolezze.