Tempo di lettura: 3 minuti

Nel bollettino dell’8 maggio la Regione Toscana annunciava l’avvio di una sperimentazione di due farmaci contro il “craving” da cocaina, il ropinirolo (Requip) e l’aripiprazolo (Abilify). Tale sperimentazione segue una iniziativa che ha permesso a molti operatori dei Sert della Toscana di formarsi sulla terapia cognitivo-comportamentale a favore dei pazienti cocainomani. Se quest’ultima iniziativa è stata meritevole, la sperimentazione farmacologia lascia decisamente perplessi, perché non mira a verificare gli effetti riscontrati su pazienti cocainomani (si tratta di molecole ben note), ma sembra rispondere al desiderio di trovare a tutti costi un farmaco contro la cocaina, come è già avvenuto contro l’eroina e contro l’alcolismo, secondo quanto viene affermato con enfasi nel bollettino. Ricordiamo che il glorioso farmaco anti-alcol a cui si fa riferimento chiamato gammaidrossibutirrico (alcover) e noto nella popolazione delle discoteche come la droga dello stupro, è prescritto solo in Italia, poiché negli altri paesi come negli Stati Uniti è severamente proibito!
Anche se appare ermetica, proviamo comunque a capire la logica che spinge a tale entusiasmo. Se riduciamo l’affinità dei ricettori per la cocaina, i suoi effetti gratificanti diminuiscono e di conseguenza anche il desiderio che può successivamente suscitare. Sappiamo che non è un farmaco che risolverà il problema della dipendenza di una persona, e ci ritorneremo. Intanto non capiamo il motivo della scelta di questi due farmaci. Il primo è un antiparkinsoniano e il secondo un antipsicotico, per i quali troviamo solamente timidi accenni ad eventuali effetti contro la cocaina nella letteratura scientifica. Inoltre questi farmaci agiscono contemporaneamente su più recettori ed in vaste zone del cervello, causando molti effetti secondari che la clinica conosce già. Siamo sicuri che prescrivere un antipsicotico e/o un antiparkinsoniano ad una persona con un cervello potenzialmente “sano” sia una pratica eticamente corretta?
Ma il cervello del cocainomane è sano oppure no? È sulla risposta a questa domanda che si basa l’idea che la dipendenza debba curarsi o meno con un farmaco. Chi pensa che il cervello del cocainomane come quello di qualsiasi altro dipendente da sostanza sia alterato, ha in mente un modello secondo cui il nostro più nobile organo sarebbe un insieme di “ghiandole” in grado di “secernere” emozioni, cognizioni, piacere, memoria, volontà… altrettanti prodotti già più o meno preconfezionati. Secondo tale modello, la dipendenza sarebbe dovuta ad un’alterazione provocata dalla sostanza di una o più di queste “ghiandole. Chiamare craving il desiderio, anche quando esso è tirannico, risponde solamente a questa logica: un piacere o un desiderio alterato! I medici dei Sert che la pensano in questo modo sono certamente in buona compagnia poiché l’idea è stata sostenuta da illustrissimi filosofi come Platone nell’antichità o Kant più recentemente! Purtroppo per i miei colleghi, la lettura moderna ed aperta delle neuroscienze porta ad una visione ben diversa del sistema nervoso. Il cervello non è composto da “superstrutture” più o meno autonome poiché l’insieme delle conoscenze, delle emozioni, della memoria, ma anche il piacere provato in certe situazioni che ci spinge a ricercarle di nuovo, così come le sue altre straordinarie capacità, sono tutte dovute alla nostra storia ed alle nostre esperienze. In effetti è l’attività del neurone che consente di arricchire le connessioni di cui il cervello dispone alla nascita, tra le vie di informazione e quelle motorie. La dipendenza non è quindi il risultato di un’alterazione di qualche “ghiandola”, ma il risultato di connessioni neuronali che solo esperienze alternative potranno sostituire. Chi si occupa di dipendenza sa che l’approccio più efficace al problema è quello centrato sulle persone e le loro relazioni ed ora le scienze cominciano a svelarne le ragioni. Purtroppo l’orientamento verso la ricerca spasmodica del farmaco salvifico, che caratterizza i servizi pubblici, tende a mortificare un prezioso bagaglio di saperi e di esperienze, di cui avrebbero sicuramente maggiore bisogno i nostri pazienti.