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L’esperienza dei Clubes Sociales de Cannabis in Spagna inizia nel 1993. L’associazione Arsec, di Barcellona, inviò un documento al procuratore antidroga della Catalogna dove affermava che, stante un pronunciamento della Corte Suprema del 1974 secondo cui l’uso personale di droghe non è reato, la coltivazione per uso personale andava considerata allo stesso modo. Il giudice riconobbe che la coltivazione di canapa in quantità tali da non superare il normale consumo non andava classificata fra i reati, ma non poteva pronunciarsi «in mancanza di casi concreti».
I soci di Arsec decisero di sottoporre subito al giudice «casi concreti». Affittarono un campo dove 100 soci iniziarono a coltivare 200 piante per l’uso personale. La piantagione fu segnalata con dei cartelli, e la magistratura e i media furono informati della sua esistenza. Dopo l’intervento della Guardia Civil, la Procura di Tarragona (importante provincia catalana, ndr) archiviò il caso, non ravvisando alcun reato. La pubblica accusa fece ricorso e la questione venne rinviata alla Corte Suprema. Mentre il caso Arsec procedeva, nacque il Coordinamento nazionale per la normalizzazione della cannabis, formato da associazioni di studio del fenomeno, poiché non era permesso usare la denominazione «consumatori di cannabis».
La prima campagna del Coordinamento («Contro la proibizione, io pianto») intendeva avviare altre piantagioni collettive come quella di Arsec. Alla fine però un solo gruppo realizzò una piantagione: l’associazione Kalamudia, di Bilbao, da me presieduta. Dopo aver preso in affitto un buon terreno, quasi 200 persone piantarono più di 600 piante di marijuana alla presenza dei media. Fra i coltivatori c’erano politici, sindacalisti, giornalisti, cantanti, scrittori, oltre a diversi pazienti.
I partecipanti firmarono una dichiarazione in cui riconoscevano di essere consumatori di canapa e si impegnavano a destinare il raccolto solo al proprio consumo personale. Affinché l’attività della piantagione fosse completamente trasparente dal punto di vista finanziario, fu aperto un conto bancario dove ogni aderente versò la sua quota per contribuire alle spese. Dopo un breve iter giudiziario il caso fu archiviato. Il giudice stabilì che non c’era reato e la Procura antidroga non fece ricorso, così la piantagione dette il suo raccolto senza problemi: un fatto storico di fronte ai media. Tuttavia, dopo pochi mesi la Corte Suprema emanava la sentenza relativa al caso di Arsec. Con un provvedimento molto politicizzato che contraddiceva la giurisprudenza precedente, la Corte condannò quattro esponenti del direttivo di Arsec a quattro mesi di carcere (in Spagna la prima condanna, se inferiore a due anni, è sospesa) e a una multa di tremila euro a testa. Era la fine del 1997.
Subito noi di Kalamudia decidemmo di ripetere l’esperienza della piantagione. E così realizzammo delle nuove piantagioni pubbliche nel 1999 e nel 2000. In entrambi i casi la Procura non si disturbò a formulare alcuna accusa e si arrivò al raccolto senza contrattempi.
Nel frattempo, Juan Muñoz e Susana Soto, dell’Instituto Andaluz de Criminología, formularono un parere giuridico. Dopo aver analizzato le sentenze del Tribunale Supremo sulla questione del consumo collettivo, arrivarono alla conclusione che in Spagna si poteva avviare la produzione cannabis o di altri tipi di piante destinate all’uso personale, alle seguenti condizioni: 1. Che l’iniziativa venisse presa da un gruppo preciso e motivato di persone; 2. che fossero tutti maggiorenni e già in passato consumatori; 3. che la sostanza ottenuta fosse sicuramente destinata al consumo personale dei soci; 4. che non ci fosse alcun tipo di guadagno. Questo è stato il punto di partenza dei «club» propriamente detti. Siccome ormai si poteva usare la formula «associazione di consumatori», le persone che volevano entrare a far parte del club firmarono una dichiarazione in questo senso. Il funzionamento era simile a quello di Kalamudia: numero chiuso e spese condivise. Così sono nati fino a cinque club nei Paesi Baschi. Alcuni sono arrivati ad assumere un proprio giardiniere. Fino a quando, per caso, io ed altri tre esponenti del mio club, l’associazione Pannagh, siamo stati arrestati dalla polizia locale di Bilbao, durante il raccolto del 2005. Il nostro arresto ha destato grande scalpore. Ma ancora di più ha fatto notizia l’archiviazione della causa contro di noi nel luglio del 2006 da parte della Procura territoriale della Provincia di Bizkaia, a cui non è seguito alcun ricorso in appello, e che si basava sul parere di Muñoz e Soto. Il tribunale per due volte ha ordinato che non ci venissero restituite le piante sequestrate, decisione sulla quale oggi pende un ricorso.
A partire da questo fatto sono nati 15 nuovi club in tutta la Spagna. Seguiamo tutti la stessa formula associativa e speriamo di dare il via a una nuova edizione della campagna «Me planto» nel 10º anniversario della prima. Peraltro è nato un club anche in Belgio, «Trekt Uw Plant», che in questo momento è in attesa di conoscere le decisioni del tribunale, dopo l’arresto e la breve detenzione di alcuni suoi soci. E la coalizione europea Encod (www.encod.org) sta promuovendo la creazione di club di questo tipo in diversi paesi europei dove il consumo è depenalizzato. Sarà questa formula, quella del «Cannabis Social Club» l’alternativa al modello proibizionista? Il tempo lo dirà, però è chiara la necessità di assumere personalmente dei rischi per sconfiggere il probizionismo. Ora che una breccia si è aperta, ci aspettiamo che molte persone si aggiungano a noi, e che ci aiutino ad allargarla. Cambiare dipende dalle nostre azioni.