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Al quotidiano Il Fatto, si sa, piace andare (o sembrare) controcorrente. Anche quando – e in effetti è caso più che raro – si tratti di contrastare giudici e sentenze. Nel caso in questione, per giunta, i giudici son quelli più alti e la sentenza è della Corte Costituzionale con cui, il 12 febbraio 2014, la “Fini-Giovanardi” è stata abolita. Gli effetti “carcerogeni” di quella legge, introdotta surrettiziamente nel 2006 dal governo Berlusconi, sono stati annualmente documentati in un Libro Bianco realizzato da Forum Droghe, altre associazioni e comunità terapeutiche. In breve: il numero degli ingressi in carcere per droga è arrivato a superare il 30% del totale, quello dei presenti in carcere sfiora il 40%. Una parte rilevante (almeno il 30-40%) è ristretta in forza del comma 5 dell’articolo 75 della legge sulle droghe, quello che sanziona le condotte di “lieve entità”, ovvero il piccolo spaccio o la detenzione a fine personale. Va poi considerato che un detenuto su quattro è tossicodipendente; e così pure il fatto (quello vero, con la minuscola) che il 45% delle denunce per droga riguarda i cannabinoidi.
Lo scandalo vero è che alcune migliaia di persone condannate in base alla Fini-Giovanardi, ora cassata, continuano arbitrariamente a restare in carcere, almeno tremila quelle condannate per la “lieve entità”. Tanto che una rete di associazioni e comunità ha promosso la campagna “Cancellare le pene illegittime”.
Per il Fatto (quello con la maiuscola e con la contraddizione in termini), all’opposto, la preoccupazione è tale da far strillare nel titolo di apertura e nelle prime due pagine del 20 agosto scorso: «La riforma della giustizia: spacciatori in libertà», «Le svuotacarceri lasciano i mercanti di morte liberi di delinquere indisturbati, beffando toghe, polizia e vittime». E ancora: «È il paese dei pusher liberi. Il governo congela le pene»; «Dopo 48 ore tornano tutti liberi»; «Impotenti. Se va ai domiciliari i poliziotti lo devono pure accompagnare a casa in macchina e organizzare i turni di controllo». E via forcaiolando.
Cotanto sdegno trae motivo nel dato, riportato con enfasi, che nel giugno 2014 su 1243 persone segnalate per droga ne sono state arrestate solo 903, mentre nel giugno dell’anno precedente le cifre erano doppie. Ulteriore apprensione deriva ai cronisti dalla crescita (dopo molti anni di trend inverso) degli accessi alle misure alternative al carcere e, in generale, dalla diminuzione del numero dei reclusi, calati a 54.414 (per 49.402 posti).
Dovrebbe essere una buona notizia, di rientro del sistema nella legalità, una prima risposta positiva ai richiami e alle ripetute censure rivolte all’Italia dalla Corte europea dei diritti umani.
Invece, dopo le cronache scandalizzate a tutta pagina, il quotidiano delega l’approfondimento a un esperto, già magistrato. Il quale critica la nuova misura che esclude la reclusione nel caso in cui il giudice preveda una pena futura inferiore ai 3 anni. Secondo il commentatore del Fatto, che paradossalmente si professa a favore della vendita degli stupefacenti in farmacia e che conclude auspicando la costruzione di nuove carceri, la necessità della carcerazione preventiva si motiva non in ragione della gravità del reato ma in base alla pericolosità del suo autore. Naturalmente, chi consuma droghe è pericoloso per antonomasia. Anzi, come ha insegnato Nils Christie, è un nemico perfetto. Si dimentica (forse) che la nozione di pericolosità sociale è stata introdotta, non per caso, dal codice fascista Rocco.
Era il 1930. Quei bei tempi andati, quando le carceri erano ancor più zeppe e di diritti umani nessuno poteva parlare.

Vedi il dossier “Contro la pena illegittima” su fuoriluogo.it.