Nel suo diciottesimo rapporto annuale, il Sottocomitato ONU per la prevenzione della tortura (SPT) pone un accento finora raro in ambito istituzionale: le politiche sulle droghe sono uno dei principali fattori di rischio per la tortura e i maltrattamenti. Nel documento (CAT/C/82/2), adottato nel febbraio 2025 e trasmesso al Comitato contro la tortura e scaricabile da fuoriluogo.it, una sezione specifica (IV.c) è dedicata alle “raccomandazioni ai meccanismi nazionali di prevenzione sull’impatto delle politiche sulle droghe nella prevenzione efficace della tortura”.
Il messaggio è chiaro: non si possono prevenire efficacemente la tortura e i trattamenti inumani senza affrontare criticamente il paradigma proibizionista, le sue conseguenze strutturali, e il modo in cui questo modella le condizioni di detenzione e l’accesso ai diritti fondamentali.
L’effetto domino del proibizionismo
Secondo lo SPT, le politiche repressive sulle droghe — dalla “tolleranza zero” alla “war on drugs” — hanno impatti sistemici: alimentano il sovraffollamento carcerario, ostacolano l’accesso alle cure, generano abusi nelle fasi di arresto e detenzione preventiva.
Il Sottocomitato riporta assenza di trattamenti specifici, negazione della terapia del dolore, personale non formato, overdose non gestite e persino decessi in custodia. Prigioni, commissariati e centri di detenzione si rivelano spesso inadatti a garantire il diritto alla salute per chi usa droghe.
“La detenzione non è cura. Il trattamento deve essere volontario, basato su evidenze scientifiche e somministrato da equipe multidisciplinari.” — Subcommittee on Prevention of Torture, 2025
Il richiamo ai garanti: monitorare, denunciare, riformare
Lo SPT chiede ai Meccanismi Nazionali di Prevenzione (NPM) — in Italia, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà — di:
- includere le politiche sulle droghe nei propri mandati ispettivi;
- monitorare gli effetti della loro applicazione in carcere, nei CPR, nelle REMS e nei centri di trattamento;
- segnalare le violazioni: sovradosaggi, trattamenti inadeguati, coercizioni “terapeutiche”, mancanza di accesso a farmaci essenziali;
- esigere parità di trattamento sanitario tra dentro e fuori il carcere (principio di equivalenza delle cure);
- valutare criticamente l’impatto dei trattamenti obbligatori e dei regimi punitivi in nome della “disintossicazione”.
“le strategie efficaci in materia di droghe devono includere la prevenzione, compresa la riduzione dei danni, e l’offerta di un trattamento esterno efficace, con un appropriato follow-up al trattamento e la fornitura di cure e trattamenti nelle comunità per ridurre al minimo il ricorso alla privazione della libertà come parte della risposta al consumo di droga.” — Sottocomitato ONU per la prevenzione della tortura
I centri di trattamento sono luoghi di detenzione
Il Sottocomitato ricorda che rientrano nella definizione di “luoghi di privazione della libertà” anche:
- cliniche per le dipendenze, pubbliche o private;
- strutture religiose che operano trattamenti coercitivi;
- centri non riconosciuti ma tollerati dallo Stato.
Essi devono essere soggetti a visita ispettiva da parte dei garanti, e i trattamenti devono essere volontari, basati sull’evidenza, rispettosi della dignità e dei diritti umani.
Un’occasione per il Garante nazionale
In Italia, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà è formalmente riconosciuto come NPM ai sensi dell’OPCAT dal 2014. Il rapporto ONU rappresenta un’occasione concreta per ampliare il proprio raggio di azione, inserendo sistematicamente le politiche sulle droghe — e le loro conseguenze — tra gli ambiti di monitoraggio e raccomandazione.
Le organizzazioni della società civile, come Forum Droghe, la Società della Ragione, Antigone, CNCA, da tempo denunciano la tossicità normativa del sistema penale italiano: oltre il 30% dei detenuti è legato a violazioni della legge sulle droghe, mentre l’accesso ai trattamenti resta disomogeneo e insufficiente.
Non c’è prevenzione senza riforma
Le raccomandazioni dello SPT non riguardano solo la prevenzione di atti di tortura “classici” o eclatanti. Chiedono un cambio di sguardo: la detenzione come risposta alla dipendenza è essa stessa una forma di violazione.
Riformare la legge sulle droghe non è dunque solo un atto politico o sanitario: è un obbligo in materia di diritti umani. L’alternativa c’è, ed è già praticata: riduzione del danno, decriminalizzazione del consumo, accesso alle cure volontarie, presa in carico comunitaria.
“Le politiche sulle droghe non sono neutrali: possono essere, e spesso sono, una matrice sistemica di tortura.” — Sottocomitato ONU per la prevenzione della tortura