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cano.jpgAlfonso Cano, il comandante delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) ucciso il 4 novembre, aveva l’aspetto del professore: gli occhiali spessi, la barba curata, il corpo non proprio atletico, insaccato nella tuta mimetica, e la dialettica appassionata. Era il più eloquente portavoce di un sogno rivoluzionario che negli anni si è legato in maniera indissolubile con il traffico di droga e i rapimenti di uomini politici e di civili. Un Che Guevara colombiano che aveva abbracciato, nel 1968, il «dio che ha fallito», come è stato definito il marxismo-leninismo. Braccato nelle montagne del Cauca, è stato venduto da spie governative che, sembra, erano in grado di riferire anche cosa mangiasse a colazione.

La morte di Guillermo Vargas (il vero nome di Cano) è solo l’ultimo di una serie di colpi inferti al movimento rivoluzionario fondato nel 1964. La politica del pugno di ferro di Alvaro Uribe, presidente dal 2002 al 2010, ha costretto l’organizzazione a ritirarsi da gran parte dei suoi territori tradizionali, mentre gli effettivi sono calati dai circa 17.000 degli anni ‘90 a poco più di 7.000 oggi. Non a caso i possibili successori di Cano si nascondono in campi al di là del confine, in Venezuela. Ma cosa verrà dopo le Farc? Nell’ultimo decennio, i territori controllati dalla guerriglia marxista sono passati nelle mani di nuovi gruppi paramilitari, eredi diretti delle Unità di Autodifesa della Colombia (Auc), le squadre della morte che hanno terrorizzato il Paese negli anni ‘90.

Mentre le Farc si sono rifiutate di deporre le armi, i 37 gruppi paramilitari di destra riuniti sotto la sigla Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) si sarebbero arresi nel 2006 e circa 30.000 militanti avrebbero consegnato le armi. Questa è la versione del governo. La realtà è molto diversa, come documentato di recente da un rapporto di Human Rights Watch. Innanzi tutto il processo di demilitarizzazione è stato caratterizzato da frodi: dei civili venivano fatti passare per ex combattenti, mentre la struttura di comando di molti gruppi rimaneva intatta. L’apparato statale si è poi rivelato incapace di smantellare la rete criminale, le strutture di supporto e le coperture politiche dei gruppi paramilitari.

Ad esempio, anche se Freddy Rendón, il capo di un gruppo affiliato alle Auc, ha deposto le armi, suo fratello ne ha preso immediatamente il posto, continuando a praticare l’estorsione e trafficare in droga a Urabá. Gli eredi delle Auc continuano a fare morti. Due nuove formazioni – i Rastrojos e gli Urabeños – sono in conflitto nelle regioni di Córdoba e Antioquia per il controllo di un’importante rotta per esportare la cocaina e importare i precursori chimici. Questa guerra ha fatto 600 morti nel 2009. Secondo la polizia, le nuove formazioni paramilitari sono responsabili di circa il 40% degli omicidi in Colombia, e possono contare su almeno 4.000 membri (altre stime dicono 10.500), ma il governo si ostina a classificarli come criminalità comune e lascia ad una polizia corrotta e mal equipaggiata il compito di fronteggiare questa nuova emergenza, mentre l’esercito si concentra sulle Farc.

Non è un caso che la politica colombiana, rappresentata da Uribe prima e ora dal suo ex ministro della Difesa Juan Manuel Santos, preferisca combattere il movimento marxista. Una serie di scandali ha mostrato come una fetta dell’élite andata al potere con Uribe sia implicata nelle attività della Auc: 33 deputati, tra cui il presidente della Camera e cugino di Uribe, sono sotto processo in quello che è passato alla storia come «lo scandalo della parapolitica». Indagini recenti hanno rivelati i rapporti tra alti esponenti dei servizi segreti interni (Das) e i gruppi paramilitari. La situazione era talmente grave che il Presidente Santos si è visto costretto a sciogliere l’intero servizio, ma la quasi totalità di funzionari e agenti continuano a lavorare negli apparati di sicurezza.

Non solo i colpi inferti alle Farc non fanno altro che rafforzare i gruppi paramilitari, ma i «successi» degli anni ‘90 in Colombia sono alla base della violenza che si è scatenata in America Centrale nel nuovo secolo. Negli anni ‘80-90 Pablo Escobar e gli altri capi dei cartelli colombiani erano i principali organizzatori della produzione e del traffico di coca, che arrivava in Florida attraverso i Caraibi. La sconfitta dei cartelli ha ridotto la capacità dei produttori colombiani, ma solo per un breve periodo: ben presto, i trafficanti messicani hanno preso il posto dei cartelli colombiani. Il Messico è oggi uno «Stato fallito» e l’epicentro di una violentissima guerra per il controllo delle rotte: quasi 40.000 morti dal 2006 a oggi.

Dapprima la violenza era concentrata nelle regioni al confine, ma poi si è diffusa nel Paese e nell’America Centrale. Solo nel 2010 sono morte 3.100 persone a Ciudad Juarez, una cittadina messicana al confine col Texas. Il triangolo che comprende Guatemala, Honduras e El Salvador è oggi uno dei posti più violenti sulla terra. Come ha scritto un giornale americano, «la guerra con la droga è finita: hanno vinto le droghe». Il giovane studente di antropologia che, nel 1968, abbracciò il «dio che ha fallito», sarà presto sepolto nel cimitero di Bogotà. La sua non è l’unica illusione a venire sepolta nei cimiteri dell’America Latina.