“Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa. Mia madre ne sarebbe lieta.”
— Ousmane Sylla, morto suicida nel CPR di Ponte Galeria, 4 febbraio 2024
Dal 1998 l’Italia ha istituzionalizzato la detenzione amministrativa per le persone migranti. Nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), luoghi inaccessibili e opachi, si rinchiudono uomini e donne che non hanno commesso reati, ma violato una norma amministrativa. L’illusione di uno spazio neutro di trattenimento è smascherata dalla realtà detentiva di questi centri, dove ogni diritto — a partire da quello alla salute — è sistematicamente eroso, se non del tutto negato.
A raccontarlo è il nuovo briefing paper pubblicato da CILD con Progetto Diritti e IDC, frutto di una tavola rotonda svoltasi nel giugno 2024 a Roma. Il documento, denso e rigoroso, raccoglie interventi giuridici, medici, testimonianze e interviste internazionali, e si propone come strumento di denuncia e proposta. Il tema centrale è la salute — fisica, mentale, sociale — e la sua radicale compromissione nei CPR.
CPR: luoghi patogeni
Le analisi contenute nel report convergono su un punto: la detenzione nei CPR è in sé un fattore patogeno. Non solo le condizioni materiali sono indegne — igiene carente, assenza di attività, isolamento forzato — ma l’intero sistema è pensato per disumanizzare. La salute mentale è quella più colpita: ansia, depressione, PTSD sono dilaganti, alimentati dall’incertezza, dall’assenza di prospettiva, dalla violenza latente (o manifesta) quotidiana. Non sorprende che i gesti anticonservativi siano all’ordine del giorno.
Ma anche l’assistenza sanitaria di base è gravemente inadeguata. L’erogazione dei servizi è affidata a enti gestori privati, spesso privi di competenze specifiche in medicina delle migrazioni. Il Servizio Sanitario Nazionale è presente solo formalmente, mentre le visite mediche obbligatorie (come l’accertamento dell’idoneità al trattenimento) vengono nella pratica svolte da personale non indipendente. Ne deriva un cortocircuito in cui la certificazione di “idoneità” diventa automatica, spogliata di senso clinico, e strumento di legittimazione del trattenimento.
Il corpo come ultima resistenza
Un saggio di Monica Serrano nel briefing decostruisce la narrazione medica dominante nei CPR, che considera i tentativi di suicidio come “manipolatori” e le richieste di aiuto come “infantili”. L’alterità culturale e linguistica delle persone migranti diventa terreno fertile per un atteggiamento clinico coloniale, che oscilla tra scetticismo e paternalismo. In questo contesto, il corpo stesso diventa mezzo di resistenza: tagli, ingestione di oggetti, autolesionismi sono richieste estreme di ascolto, grida silenziate che sfidano il disconoscimento istituzionale.
Medici, non complici
Un’intera sezione del briefing è dedicata alla campagna lanciata nel 2024 da SIMM, ASGI e Rete “Mai più lager – No ai CPR”, che chiede ai medici del SSN di non rilasciare più alcuna certificazione di idoneità alla vita nei CPR. Una presa di coscienza bioetica e professionale, fondata su prove scientifiche e sulla constatazione che nessun essere umano può essere considerato “compatibile” con una struttura detentiva come quelle attualmente in funzione.
Le parole di Franco Basaglia risuonano come monito: “Non c’è cura dove non c’è rispetto dei diritti.” La presenza di medici nei CPR, se non profondamente critica, rischia di normalizzare luoghi dove ogni logica terapeutica è impossibile. In alcuni CPR sono già emerse pratiche manicomali: uso estensivo di psicofarmaci, isolamento, stanze svuotate “per evitare autolesionismi”, in assenza di percorsi reali di presa in carico.
Verso un’abolizione possibile
Il briefing non si limita alla denuncia. Una sezione, a cura di Nataliya Novakova, è dedicata alle alternative alla detenzione (ATD), strumenti previsti dal diritto internazionale e sperimentati in vari paesi. I dati sono chiari: le ATD migliorano l’aderenza ai percorsi legali, riducono i costi e, soprattutto, tutelano la salute. È una strada possibile, concreta, percorribile anche in Italia, se ci sarà volontà politica e pressione sociale.
Un appello a chi cura
Il messaggio di questo lavoro è duplice: da un lato, si chiede al personale sanitario di non diventare complice della detenzione amministrativa. Dall’altro, si rivolge alla società civile per rompere il muro di invisibilità che circonda i CPR. Denunciare non basta: occorre mobilitarsi, documentare, costruire alleanze tra giuristi, medici, attivisti. È in gioco non solo la salute delle persone migranti, ma la nostra stessa idea di civiltà.
Perché nei CPR, ogni giorno, si muore. Non sempre di morte visibile. Spesso, lentamente, di indifferenza.