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CITTÀ DEL MESSICO – Con una quindicina di morti ammazzati al giorno, con sparatorie notturne e stragi di poliziotti, città occupate dall’esercito e cadaveri decapitati con messaggi addosso, la «guerra al narco-traffico», cavallo di battaglia di Felipe Calderón in un anno e mezzo di contestata presidenza, ha prodotto solo un aumento geometrico della violenza nelle strade, gravi violazioni dei diritti umani e una crescita senza precedenti del senso di insicurezza nella popolazione.
Intere città – come Tijuana, tequila sexo marijuana, secondo Manu Chao; Ciudad Juárez, tristemente famosa per le centinaia di donne impunemente assassinate; Culiacán, capitale dello stato di Sinaloa, culla dei narcos – sono diventate nelle ultime settimane veri e propri campi di battaglia, con i cittadini che fanno acquisti da panico ed evitano di uscire se non è proprio indispensabile. Nel mezzo di un conflitto armato che oppone i maggiori cartelli della droga in disputa per il territorio e tutti loro contro le forze repressive dello stato, un avventurato passante rischia di fare la fine di un ciego en el tiroteo, un cieco che si ritrova nel mezzo di una sparatoria.
Non c’è bisogno di ricorrere al sensazionalismo, la realtà si incarica di battere tutti i Guinness: sette poliziotti uccisi e quattro feriti in un solo scontro a fuoco, cinque decapitati in una settimana, tre alti funzionari che chiedono asilo negli Stati uniti, una banda di sicari tirata fuori dal carcere da un gruppo armato. Termini come encajuelado (cadavere ritrovato nel bagagliaio di un’auto), encobijado (corpo avvolto in una coperta), narcomensaje (messaggio scritto con un avvertimento dei narcos) sono ormai parte del linguaggio quotidiano.
In questo contesto, sono ormai in molti a parlare di «colombianizzazione», intesa come un processo di crescente militarizzazione sostenuto e diretto da Washington. Di fatto, un «contratto» di assistenza militare al governo messicano nella lotta ai narcos sta per essere sfornato dal Congresso Usa. Con il pudico nome di «Iniciativa Mérida» – ma ribattezzato dall’opposizione «Plan México», sul calco del Plan Colombia – il piano prevede l’erogazione di 350 milioni di dollari l’anno (originalmente dovevano essere 500), ma pone una serie di condizioni così strette che lo stesso governo Calderón, in un residuo sussulto di dignità, si è messo a criticarle come una riedizione della abolita «certificazione», che i gringos rilasciavano annualmente ai paesi latino-americani. Un’umiliante pagellina con cui il governo statunitense premiava o castigava (in dollari) i vari governi del continente per il loro collaborazionismo nella guerra alla droga (ma non solo).

«Stiamo vincendo questa guerra, anche se non sembra», ha dichiarato il procuratore generale Eduardo Medina Mora con un umorismo involontario che ha fatto la delizia dei principali vignettisti. Qualche giorno fa Felipe Calderón, che autorevoli opinionisti continuano a chiamare «presidente de facto», ha puntato il dito contro i media in generale, accusandoli di essere complici della criminalità organizzata. Il giorno dopo, il duopolio televisivo – Televisa e TvAzteca – mostrava obbediente i successi sportivi dei messicani all’estero, omettendo le narco-ejecuciones. Ma è difficile nascondere venti morti in un fine settimana, specie se due erano figli di capos eliminati in un parcheggio a colpi di bazooka.

«Basterebbe promuovere la legalizzazione o la depenalizzazione delle droghe per fermare queste ondate di omicidi in tutto il paese – dice la scrittrice Elena Poniatowska -. Le droghe sono un business colossale, rappresentano la maggiore entrata dell’economia messicana, prima ancora del petrolio. L’esperienza della legalizzazione dell’alcol negli Stati uniti insegna come si pone fine agli imperi criminali. Non è con la militarizzazione e la guerra che si otterrà qualcosa. Il governo deve rivedere la sua strategia, tenere conto dell’aumento delle esecuzioni, fermare questa violenza dilagante che sta trasformando il paese in un campo di battaglia».

Da quando denunciò con grande coraggio la strage di centinaia di studenti nell’ottobre 1968 a Tlatelolco, Elenita è rimasta una delle voci più autorevoli del Messico libero e pensante. Oggi fa parte del Comité en defensa del petróleo, fomato dai maggiori intellettuali e scienziati messicani contro il tentativo di privatizzare Pemex, la compagnia petrolifera di stato, portato avanti da Calderón.
Eh già, perché dopo le droghe, che danno da vivere a più di un milione di persone e permettono di accumulare fortune che comprano eserciti, politici, giudici e istituzioni intere, il petrolio, con un prezzo inarrestabile, è il boccone più ambito. Lì a farsi la guerra sono due partiti realmente antitetici: da una parte, le multinazionali del petrolio, che già da tempo hanno unto i meccanismi di un potere esecutivo e legislativo facilmente corrompibili.
Dall’altra, però, un movimento popolare che elude le strumentalizzazioni politiche, anche se è stato convocato dal «presidente legittimo» Andrés Manuel López Obrador, e rivendica la «expropiación petrolera» decretata dal presidente Lázaro Cárdenas fin dal lontano 1938. Da allora, il petrolio è diventato un orgoglioso patrimonio di tutti i messicani e un elemento insostituibile dell’identità nazionale, una cosa che i tecnocrati neo-liberisti al governo faticano a capire e tacciano di nazionalismo anacronistico.
Intanto, al movimento in difesa del petrolio, che conta già centinaia di migliaia di «brigadistas» impegnati nella propaganda porta a porta, si è affiancato da subito un fronte istituzionale: i 156 deputati del Fap – il Frente amplio progresista, formato dal Prd, il Pt e Convergencia – hanno occupato per due settimane in aprile la tribuna del Congresso, paralizzando l’attività legislativa. E questo malgrado l’irreparabile spaccatura del Prd di López Obrador, il maggiore partito d’opposizione.
Il Pan, espressione dell’estrema destra cattolica e neoliberista al governo, e il Pri, l’ex partito-stato, il dinosauro in attesa di rivincita ma con alcune contraddizioni interne in tema petrolifero, stavano per passare la «riforma energetica» di Calderón – leggi svendita di Pemex al capitale multinazionale. Il «sequestro delle istituzioni», come il Pri e il Pan chiamarono il blocco delle due Camere, servì in realtà a imporre un dibattito nazionale, condotto da politici, intellettuali e scienziati nel Senato. Oltre a ritardare di 70 giorni qualunque votazione sul tema del petrolio, il dibattito sta rafforzando l’opposizione alle proposte di legge governative e mostra la povertà di argomenti dei privatizzatori, che a volte ricorrono a dati palesemente falsi o all’insulto puro e semplice.

La festa che i piani neo-liberisti credevano vicina – lo stesso commissario europeo del commercio Peter Mandelson ha espresso «l’approvazione europea alla riforma energetica del presidente Calderón», forse con la speranza di una fetta della torta – subirà quanto meno un certo ritardo. Il sindaco della capitale, Marcelo Ebrard, ha annunciato un referendum per fine luglio a Città del Messico sul tema del petrolio. Anche se l’attuale legislazione non riconosce validità giuridica al risultato di una consultazione popolare, la volontà della maggioranza non potrà essere ignorata. Mentre la metà dei 31 governatori messicani ha già anticipato la sua adesione al referendum il governo sbraita sulla sua «incostituzionalità».