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Giovanni Serpelloni ha, quasi, 54 anni. Da una trentina vive in mezzo alle droghe. Nel senso che le studia, e porta avanti la sua battaglia contro la dipendenza. Con un approccio «bipartisan». Per arrivare al suo scopo «se ne frega» del colore del politico di turno. Ha lavorato con Paolo Ferrero e Livia Turco. Ora con Carlo Giovanardi.
Allora dottor Serpelloni, questa sperimentazione?
Chiariamo questa cosa: non è una sperimentazione. È da un anno che a Verona lo facciamo. Più che altro è un modello che proponiamo per esportarlo.
Funziona? I risultati quali sono?
In un anno abbiamo esaminato oltre 800 guidatori. Di questi circa il 48% è risultato positivo a alcool e/o droghe. Il 19,1% dei fermati, negativi all’etilometro, sono poi risultati positivi al test antidroga.
Come avviene il test?
Dopo il «palloncino» fatto al posto di blocco il fermato viene portato da noi. A quel punto il «cliente» viene fatto parlare con un medico che prende i primi dati.
A questo punto cosa succede?
Il ragazzo viene preso in custodia da un medico che inizia a fargli l’anamnesi. Nel 95% dei casi ammette spontaneamente di aver fatto uso di droga. Poi c’è il test dell’urina. Nel giro di due-tre minuti sappiamo quale tipo di sostanza ha assunto. A quel punto facciamo una specie di «verbale» dato poi alle forze dell’ordine.
Ma il test dell’urina trova tracce di sostanze assunte fino a due settimane prima. Se uno, ad esempio, si è fatto una canna tre giorni prima viene «beccato», ma questo non influisce sul suo comportamento alla guida.
Non ne sarei così sicuro. L’uso abituale di sostanze provoca danni di lungo periodo, ad esempio al lobo frontale del cervello, che è quello adibito all’attenzione. Quindi se uno si è «fatto» anche non la sera stessa non è detto che sia del tutto sano.
E quindi gli fate togliere la patente?
Il test che facciamo prevede anche altri tipi di esame. Se riteniamo che uno sia in grado di guidare lo facciamo tornare a casa con la sua auto, segnalandolo solo come consumatore occasionale. In più alle forze dell’ordine passiamo solo i dati strettamente necessari al loro lavoro, tenendo per noi quelli sensibili e di stretto interesse medico-sanitario.
Insomma, non è una stretta repressiva questo suo modello?
No, assolutamente. Anzi a mio avviso lo definirei «garantista».
Qual è il suo scopo?
Salvare vite umane, non punire. Il nostro lavoro deve servire come deterrente, e deve essere accompagnato da una campagna di sensibilizzazione. Nient’altro.