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La proposta di legge di riforma del Testo Unico in materia di stupefacenti, elaborata nel 2015 e presentata alla Camera e al Senato nelle scorse legislature, nasce dall’osservazione di una raccolta significativa di dati negli anni, grazie all’esperienza dei Libri Bianchi, che monitorano gli effetti della legge sulla droga in termini di impatto sulla giustizia e sul carcere.
Sono dati che ci consegnano un sostanziale fallimento del sistema penale e sanitario in materia: sul versante dei controlli e dell’apparato sanzionatorio dell’offerta di droga, sempre più concentrato sui piccoli spacciatori e sui cannabinoidi; sulle drammatiche conseguenze della repressione, con paradossali effetti di massimizzazione dei danni correlati sul piano dei sistemi giudiziari e penali, dei diritti umani ed economici, della macrocriminalità e della coesione sociale; sull’incapacità di tutelare la salute dei consumatori problematici di sostanze. Infine, non certo per importanza, sull’impatto nefasto di tali azioni sul sistema carcerario che, come dimostra lo studio apparso nella scorsa edizione del Libro Bianco, senza tossicodipendenti e senza soggetti che hanno violato l’art. 73 del DPR 309/90, non sarebbe afflitto dall’atavico problema del sovraffollamento carcerario che ha messo l’Italia nella scomoda posizione di “osservata speciale”, inserita nella black list degli Stati europei con problematiche di tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute. Una posizione, vale la pena ricordarlo, non soltanto lesiva dell’immagine dell’Italia di fronte all’Europa per lo scarso rispetto della civiltà giuridica, ma tale da produrre alcune gravi conseguenze, sia sul piano dei rapporti di cooperazione giudiziaria, sia su quello delle dinamiche comunitarie, innescando una procedura di infrazione che avrebbe avuto, in caso di persistente inottemperanza italiana al diktat imposto dalla Corte di Strasburgo, pesanti ricadute anche sul piano economico.
Questo desolante quadro fornisce, però, anche alcune certezze: l’inopportunità della criminalizzazione dei consumatori di droga, (la repressione è tra i più influenti fattori di massimizzazione dei rischi e dei danni droga – correlati) e la necessità di andare oltre le Convenzioni Onu (adottate nel ‘61, nel ‘71 e nell’ ‘88), ormai superate e non più adatte allo scopo.
Nate inizialmente con l’intento di controllo del traffico, le Convenzioni si sono progressivamente involute in senso proibizionista, considerando atto criminale il possesso, l’acquisto o la coltivazione per uso personale e arrivando, così, a diventare la “chiesa internazionale della proibizione delle droghe”, come le ha definite Peter Cohen.
Anni di politiche internazionali di guerra alla droga, dietro lo scudo della crociata dell’utopico e retorico “piano per un mondo liberato dalle droghe” (sancito a New York nel 1998, nel corso della sessione speciale dell’assemblea generale ONU sul tema droga), si sono infranti di fronte all’incontrovertibile verità dei numeri sia in termini di offerta che di danni provocati. Al punto che, già nel corso di UNGASS 2008, 26 paesi capeggiati dalla Germania si erano dissociati dal documento finale e nella successiva sessione del 2016 si è preso atto che l’obiettivo della eliminazione delle droghe illegali ha portato a violazioni importanti del diritto alla salute e di altri diritti umani.
In Italia, solo nel pieno del dibattito sul sovraffollamento carcerario, scaturito dalla sentenza Torreggiani, ha iniziato a farsi strada anche nell’opinione pubblica, così come nei media, la consapevolezza dello stretto collegamento tra lo stato delle prigioni in Italia e la normativa antidroga. Questo ha portato a modifiche di alleggerimento penale, come per i fatti di lieve entità, e all’abrogazione delle norme penali più punitive, come accaduto con la pronuncia di incostituzionalità che ha colpito la Legge Fini- Giovanardi.
Tentativi di riduzione dell’impatto carcerario delle droghe che scontano, tuttavia, un limite di fondo: al di là delle alternative terapeutiche, vi è stata l’assenza di seri tentativi di riduzione delle pene e di eliminazione di quelle carcerarie per i reati minori.

I PROPOSITI CHE MUOVONO LA RIFORMA OLTRE I TRATTATI INTERNAZIONALI

La mission della proposta di legge è quella di consegnare una riforma organica e armonica dell’attuale Testo Unico, che sancisca definitivamente la depenalizzazione totale del consumo di droghe; riformuli la parte sanzionatoria, non solo rimodulando verso il basso le pene, ma riscrivendo anche la fattispecie di reato che, ad oggi, è causa dei ben oltre un terzo di presenze in carcere: l’art. 73 T.U. 309/90; segni la revisione della alternative al carcere per i tossicodipendenti assieme alla ripresa e al rafforzamento di adeguate politiche socio-sanitarie, in grado di fronteggiare le dipendenze ad alto rischio.
Questi obiettivi ci hanno determinato ad intervenire su un doppio fronte: da un lato, sul Titolo VIII, nella parte che contiene le disposizioni volte a reprimere le attività illecite e a disciplinare le “tutele processuali” per i tossicodipendenti; dall’altro, sul Titolo X dedicato ai servizi per le dipendenze, nelle sue articolazioni statali.
Lavorando nel solco tracciato dalla crescente tendenza globale alla decriminalization del possesso/consumo di droghe, la riforma vuole rappresentare un chiaro cambiamento di rotta per il nostro Paese rispetto all’approccio marcatamente proibizionista delle Convenzioni internazionali; ciò, pur restando nel perimetro dell’esistente contesto legale dei trattati e nel sistema globale di controllo delle droghe. Le Convenzioni, infatti, accordano spazi considerevoli di interpretazione a livello nazionale. Oltre a consentire nominalmente il consumo, come nel caso delle strategie della riduzione del danno, e a stabilire, nell’ottica di un “approccio bilanciato”, misure alternative alle sanzioni penali (sempre per il solo consumo), lasciano interessanti “margini di manovra”. Il primo è, indubbiamente, rappresentato dalla “scappatoia” dei “principi costituzionali e dei concetti fondamentali del … sistema giuridico” di ogni Stato aderente alla Convenzione, a cui gli obiettivi di soppressione sono subordinati. Il secondo, poco menzionato ma parimenti utile, è rinvenibile nella mancata definizione dell’“uso medico e scientifico” richiamato più volte dai trattati, il quale, soprattutto nel campo delle politiche di riduzione del danno, è in grado di fornire un utile elemento di flessibilità interpretativa per uscire dal rigore proibizionista delle norme internazionali.
Era il marzo del 2008, quando l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki–moon, commentando il Rapporto della Commissione indipendente sull’AIDS in Asia, esortava ad emendare “leggi superate che criminalizzano i gruppi più vulnerabili della società” per il loro stile di vita, anziché adottare “le misure necessarie a garantire loro una vita dignitosa”. Accogliendo idealmente quell’invito, si è sancito, una volta per tutte, che il consumo di sostanze stupefacenti non rappresenta un illecito, neppure in chiave amministrativa.
Tale scelta di campo non è dettata esclusivamente dagli evidenti “danni collaterali” della criminalizzazione dell’uso.
Se il traguardo a cui tendere è quello di porre al centro della discussione il tema dei diritti, individuali e collettivi, di certo occorre partire dal diritto all’autodeterminazione dell’individuo, che può essere garantito solo se le scelte, fatte in piena consapevolezza, non vengono coartate. L’uso di droghe non può pertanto essere sanzionabile; cade così la concezione “paternalistica” dello Stato, soprattutto davanti a consumi non “ad alto rischio” (quelli che precedentemente erano definiti “problematici”).
La riscrittura del primo comma dell’art. 72, che apre il capo I del titolo VIII, e l’abrogazione degli articoli 75 e 75 bis (quest’ultimo, peraltro, già oggetto di pronuncia di incostituzionalità) mettono, senza esitazioni, la parola fine non solo ad ogni ambiguità in ambito penale della detenzione di droghe ad uso esclusivamente personale – anche nell’ottica della coltivazione per uso personale e dell’uso di gruppo -, ma anche a tutte le sue stigmatizzanti conseguenze (sul piano amministrativo) per i consumatori, in gran parte giovani o giovanissimi. Questi ultimi possono spontaneamente rivolgersi ai Servizi territoriali, nel caso in cui ritengano che l’uso si configuri come problematico rispetto alle loro specifiche condizioni di vita e di salute.
Di fatto, a mutare è l’approccio verso il consumatore, non più visto come criminale da sanzionare, ma come persona con diritti da tutelare e, solo se necessario, “accompagnare”, in un percorso di cura della propria salute.

SEMPLIFICAZIONE DELLE CONDOTTE E NESSUN PARAMETRO QUANTITATIVO: LA NUOVA VESTE DELL’ART. 73 DPR 309/90

Tratto identitario della proposta sta nella riscrittura dell’art. 73 del Testo Unico sugli stupefacenti. Se ne sentiva una grande urgenza per una pluralità di ragioni, soprattutto dopo che la Corte costituzionale nel 2014 ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi.
Innanzitutto occorreva fare chiarezza, una volta per tutte, rispetto alla confusione generata dalla presenza di ben 22 fattispecie oggettive di reato alternative, legate da una sorta di escalation criminosa che vede nella detenzione la funzione di norma di chiusura. Pluralità di condotte che, tra l’altro, a determinate condizioni, – si pensi alla mancanza di contiguità temporale o alla presenza di sostanze diverse – possono arrivare ad integrare più violazioni della stessa disposizione di legge, quindi, distinti reati legati dal vincolo della continuazione. Quasi a dire che “ogni volta che si tocca” la sostanza, si incappa in un illecito penale.
Produzione, cessione, acquisto e detenzione diventano così, se accompagnate dal doppio dolo specifico della cessione e dello scopo di lucro o di altra utilità, le uniche condotte sanzionabili.
Viene depennata dalla lista delle condotte illecite la coltivazione: se ad uso personale, rientra nell’art. 72; se prodotta in forma aggregata, è inquadrata nella disciplina del sistema dei Cannabis Social Club mutuati dall’esperienza spagnola, di cui all’art. 73 bis; se connotata dai caratteri tecnici-agrari, ricade nella più ampia categoria della condotta illecita della produzione. Si segnala che tale impostazione si pone, di fatto, in linea con la posizione a cui è approdata recentemente la Cassazione, a Sezioni Unite. Con la sentenza del 19 dicembre 2019, il criterio distintivo dell’illiceità della coltivazione è diventato il suo carattere produttivo industriale e non domestico-rudimentale, a differenza di quanto avveniva in passato.
Altro tratto distintivo della proposta è stata l’eliminazione di qualunque parametro quantitativo per distinguere la detenzione ad uso non esclusivamente personale dallo spaccio.
Da anni il nostro legislatore, per distinguere l’uso dallo spaccio, oscilla tra la tentazione di una “rassicurante” soglia quantitativa – in grado di orientare anche gli operatori di polizia e gli organi inquirenti, durante i controlli, – e la ragionevolezza di un modello “flessibile”, fondato sulla discrezionalità, che non ricorre a limiti quantitativi ma che lascia i giudici liberi di stabilire a quale finalità il possesso è destinato.
È accaduto così per la “modica quantità”, introdotta con la legge 685 del ’75 come causa di non punibilità, soppiantata poi dal più rigido parametro della “dose media giornaliera” del DPR 309/90; con il referendum del ’93 che ha spazzato via nuovamente il limite quantitativo, reintrodotto però nel 2006 dalla legge Fini- Giovanardi col concetto di “quantità massima detenibile”, parametrata al principio attivo (quello realmente drogante) contenuto nella sostanza rinvenuta.
Indipendentemente dalla natura della presunzione (assoluta o relativa) della “norma processuale in bianco” o dalla sua ragionevolezza, la rimozione del parametro quantitativo comporta un indiscutibile effetto positivo in termini processuali. Vuol dire riportare l’onere della prova dall’imputato – a cui spetta dimostrare che, nonostante il quantitativo detenuto ecceda i predetti limiti, la droga era destinata esclusivamente all’uso personale – alla pubblica accusa. L’indebita inversione dell’onere probatorio si pone in aperto contrasto con uno dei baluardi del nostro sistema costituzionale in ambito processualpenalistico, dove la prova della colpevolezza spetta all’accusa. Non alla difesa.
Con l’eliminazione di qualunque riferimento ai parametri quantitativi, il Giudice torna libero di valutare la finalità del possesso. Quest’ultimo, nel suo giudizio, potrà invece ancora ricorrere a quei criteri, oggettivi e soggettivi, elaborati negli anni da dottrina e giurisprudenza per connotare lo spaccio. Ci riferiamo ai “mezzi utilizzati, le modalità adottate, la tipologia di confezionamento della sostanza, le condizioni personali e soggettive dell’agente, lo stato, la qualità e la quantità delle sostanze” che, seppur con qualche modifica, restano codificati. Si tratta di meri indici presuntivi che il Giudice potrà valutare, unitamente ad altre circostanze acquisite anche, ma non necessariamente, su impulso dell’interessato, restando l’onere probatorio, come già detto, pienamente in capo al pubblico ministero.
Rimanendo nell’ambito dei principi fondamentali del nostro ordinamento, quello della proporzionalità fra le pene e la gravità del reato, anche in considerazione del sistema sanzionatorio complessivo, continua ad occupare un ruolo centrale, rappresentando uno degli architravi di qualunque stato liberale. La rimodulazione e riduzione delle pene per tutte le sostanze in tabella I, II, III e IV, ha come obiettivo proprio l’allineamento della legislazione penale sulle droghe al principio di proporzionalità, facendo sì che le pene non superino quelle previste per i delitti contro la persona, in particolare il reato di omicidio.
Quanto ai fatti di lieve entità, sulla base anche dei risultati di una recente ricerca condotta dall’Ufficio del garante dei detenuti della Toscana, oltre ad una sensibile riduzione della pena, si è rafforzato il carattere di autonomia della fattispecie. I due titoli già autonomi di reato (nel 2013, col decreto legge 146, convertito in legge il 21 febbraio 2014, la previsione di condotta di “lieve entità” è passata da semplice attenuante a figura di reato autonoma) sono stati scorporati in due articoli distinti, estrapolando il quinto comma dall’art. 73 per collocarlo in un distinto articolo, il 73-bis. Si è anche differenziato il regime sanzionatorio (con la legge 79 del 2014, le pene per la lieve entità sono state abbassate e portate da sei mesi a quattro anni, indistintamente dalla tipologia di sostanza) in funzione della diversa natura dello stupefacente, al fine di graduare, coerentemente con il resto della normativa, il trattamento punitivo in relazione alla gravità delle condotte.

“NO AL CARCERE” SE È POSSIBILE UN PROGRAMMA TERAPEUTICO ESTERNO

A fianco alla modifica della fattispecie del reato di spaccio, si sono apportate innovazioni volte, da un lato, ad evitare l’ingresso, anche temporaneo, in carcere dei tossicodipendenti e ad agevolarne la decarcerizzazione; dall’altro, ad applicare strumenti volti a potenziare le politiche di riduzione del danno, entrate a far parte dei LEA nel gennaio 2017 ma, ad oggi, non ancora implementate dall’intervento di alcun atto governativo e ministeriale.
Andiamo per ordine. Sul primo fronte – quello del “no al carcere” se è possibile un programma terapeutico esterno – ci si è concentrati su modifiche e innovazioni che coinvolgono sia le persone nei cui confronti è in corso un procedimento penale connesso al proprio stato di tossicodipendenza, che verso coloro che sono stati condannati e devono scontare l’esecuzione della pena.
In tale prospettiva è stata elaborata una versione ad hoc per i tossicodipendenti del più generale istituto di sospensione del processo con messa alla prova, previsto dall’art. 89 bis, con un innalzamento dei limiti di pena per l’accesso (prevista in 4 anni per quella ordinaria, 10 anni per quella “terapeutica”) e la possibilità di usufruirne per due volte, anziché una, stante la forte recidiva criminale della tossicodipendenza.
Anche le modifiche apportate nel campo cautelare ed esecutivo sono sostanzialmente volte al potenziamento dell’accesso ai programmi terapeutici.
Prima di addentrarci nella loro analisi, è opportuno sottolineare un principio di fondo. L’istituto dell’art. 89 DPR 309/90 si rivolge al solo condannato per reati connessi al suo stato di dipendenza, non a chi è tossicodipendente al momento dell’esecuzione della pena. Un regime differenziato, finalizzato allo svolgimento di un percorso terapeutico, non appare, infatti, giustificato per quei soggetti in cui si è palesata l’attitudine a commettere reati indipendentemente dalla tossicodipendenza. Per costoro, invero, l’accesso a un programma terapeutico non garantisce, anche in caso di successo, l’eliminazione di quelle condizioni soggettive che possono favorire la commissione di nuovi reati.
Dall’art. 89 del TU scompare la presunzione assoluta di adeguatezza degli arresti domiciliari per coloro i quali, inseriti in un programma terapeutico o che vogliono accedervi, dovrebbero essere attinti da un provvedimento di custodia cautelare in carcere, nel caso di insussistenza di esigenze di eccezionale rilevanza. A dire il vero si tratta di un “ritorno al passato”, a prima dell’approccio restrittivo e punitivo imposto dalla L. 49 del 2006. Il sistema ante Fini-Giovanardi si poggiava su un indiscutibile e chiaro limite all’uso della misura custodiale estrema per i soli motivi di assoluta eccezionalità. La custodia in carcere non perdeva, così, quel connotato di estrema scelta e la disciplina dell’art. 89 del DPR 309/90 si poneva in un coerente sviluppo con il testo dell’art. 273, comma 3 c.p.p., lasciando ampio spazio al Giudice, il quale poteva discrezionalmente valutare la necessità di altra misura meno gravosa. Con la riforma, invece, è stato compiuto un chiaro passo indietro, stabilendo gli arresti domiciliari come unica alternativa al carcere. Eliminare la presunzione assoluta dei domiciliari non vuol dire solo riconsegnare discrezionalità di giudizio al Magistrato, che torna libero di valutare l’adeguatezza, proporzionalità e gradualità della misura nel rispetto della personalità dell’inquisito e del fatto contestato; ma significa anche facilitare l’accesso ai programmi terapeutici. Aspetto spesso sottovalutato è che gli arresti domiciliari pongono diversi ostacoli ai programmi presso i servizi o in comunità. La presenza nelle ore più diverse della polizia in comunità, turba l’equilibrio del gruppo e crea reazioni negative per lo sviluppo regolare del programma stesso, condizionando tutte le attività esterne alla comunità previste nel programma terapeutico. Inoltre, venuti meno gli arresti domiciliari, l’interessato spesso va via perché si interrompe la messa a carico della spesa in capo all’amministrazione penitenziaria. Inoltre è del tutto ragionevole escludere la custodia in carcere come gli arresti domiciliari, se il programma terapeutico è residenziale; anche perché le Comunità sono tenute ad osservare un onere di comunicazione dell’allontanamento, duplicando, di fatto, il controllo della polizia.
Altro automatismo a cadere sotto i colpi della riforma, è il regime di ostatività per i reati di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, quel folto e disomogeneo gruppo di delitti, frutto di interventi normativi tanto disorganici quanto sproporzionati alla reale serietà delle condotte, nati per soddisfare esigenze securitarie. Nel testo originario, prima dell’intervento di riforma della legge Fini-Giovanardi, l’inapplicabilità dei commi 1 e 2 dell’art. 89, era riferita ai soli delitti mafiosi. La differenza è notevole se si pensa al numero di reati che attualmente contiene l’art. 4 bis. Per questi reati si è mantenuto un regime differenziale, a discrezione del Giudice, per il solo obbligo, in caso di applicazione degli arresti domiciliari, che questi avvengano in una struttura residenziale.

UNO SPORTELLO DEI SERVIZI PER LE DIPENDENZE PRESSO OGNI TRIBUNALE

Se l’indicazione degli articoli 89 e 94 del T.U. 309/90 è quella di privilegiare un’esecuzione della pena con programmi terapeutici riabilitativi fuori dal carcere, per tanti tossicodipendenti l’accesso alle misure alternative al carcere resta assai problematico.
Nel caso di condanna a pene detentive brevi, infatti, è frequente che, per una pluralità di ragioni, non si riesca a predisporre per tempo un programma riabilitativo: dalle difficoltà dei Ser.D., fuori e dentro il carcere, alle inefficienze dell’Area educativa degli istituti penitenziari e degli U.e.p.e., passando per la scarsa tempestività della Magistratura di sorveglianza.
Un possibile rimedio, previsto dalla proposta di modifica normativa, è costituito dalla previsione di una maggiore integrazione, fin dalla fase del processo di cognizione, tra i Ser.D e gli uffici giudiziari, mediante la creazione di uno “sportello dedicato” presso ogni Tribunale che funga da raccordo tra i servizi e il Giudice e, in caso di soggetti in custodia cautelare in carcere, con il Ser.D. interno al Carcere, che dovrebbe segnalare la loro la presa in carico. In questo modo, con la creazione di un’apposita unità del Servizio per le Dipendenze, sarebbe possibile favorire la immediata presa in carico del soggetto arrestato o la scarcerazione di quello già detenuto, consentendo al Giudice una più agevole applicazione di misure cautelari non detentive, in vista di una eventuale prosecuzione in sede esecutiva del percorso di recupero già avviato.
Ma questo, ovviamente, non basta.

IL PROGRAMMA DI REINTEGRAZIONE SOCIALE NELL’AMBITO DEL PROGRAMMA TERAPEUTICO E RIABILITATIVO

Vi sono, infatti, delle difficoltà che risiedono, oltre che nella cronica insufficienza di risorse economiche dedicate, nel fatto che le prese in carico in carcere di soggetti con problematiche di abuso sono spesso ostacolate dalla dissimulazione dalla dipendenza (spesso si preferisce l’anonimato allo stigma e alla disintossicazione forzata) o dalla difficoltà di formulare diagnosi di dipendenza a causa dei cambiati modelli di consumo, non sempre inquadrabili nel binomio “dipendenti/consumatori”. E anche quando si riesce a pervenire a una diagnosi, i programmi terapeutici si presentano spesso come banali e ripetitivi, volti essenzialmente all’assunzione di metadone, senza essere realmente “cuciti” sul soggetto.
Tutto ciò comporta un ricorso troppo frequente verso programmi residenziali, anche in considerazione di una impostazione culturale della Magistratura, anche quella di sorveglianza, di tipo securitario. Programmi residenziali che, venendo attuati in comunità ove spesso si riproducono dinamiche simili a quelle carcerarie, sono stati privilegiati anche dal legislatore con la ricordata disciplina dell’art. 89.
Un assetto complessivo che nasce dall’assunto secondo cui la droga sarebbe una causa dell’agire criminale, non controllabile socialmente, come nel caso dell’alcol. Da qui la stigmatizzazione del tossicodipendente e l’enfasi sulla riabilitazione al di fuori del carcere, con il progressivo innalzamento del tetto di pena fino agli attuali 6 anni. Una soluzione, questa, che è opportuno rimeditare, riducendo i limiti massimi di pena per l’accesso all’affidamento terapeutico da 6 a 4 anni, al fine di omologarlo a quello ordinario. Al tempo stesso, tuttavia, si è puntato all’introduzione, con l’art. 94-bis, del “programma di reintegrazione sociale nell’ambito del programma terapeutico e riabilitativo” per le pene (da espiare superiori a quelle previste dal precedente articolo, ma) non superiori a otto anni di detenzione. Tratto da una felice intuizione di Alessandro Margara, il programma consiste nello svolgimento di attività socialmente utili e non retribuite e segna un avvicinamento delle alternative terapeutiche all’affidamento ordinario.
La riforma del titolo X è invece volta ad implementare le misure di riduzione del danno con la “sperimentazione di programmi e interventi sociosanitari” di cui all’art. 113-bis, in base al quale i Ministeri, di concerto con le Regioni, promuovono la sperimentazione di programmi ed interventi innovativi con particolare riguardo, alle attività rivolte ai consumatori problematici in condizioni di grave marginalità e alle attività di prevenzione circa i rischi delle sostanze psicotrope di cui i consumatori non conoscono la composizione chimica e la concentrazione di principi attivi.
È utile sottolineare, infine, che, nel quadro del dibattito che si è sviluppato alla vigilia della programmata Conferenza di Milano, poi inevitabilmente rinviata a causa della pandemia, alcuni aspetti della presente riforma sono stati oggetto di discussione e di rimodulazione. Oltre alle modifiche necessarie per l’introduzione della Riduzione Del Danno nei LEA, elemento di riflessione è stato, ad esempio, il procedimento di autorizzazione per l’apertura dei Cannabis social club. Si tratta di un sistema di preventive autorizzazioni in linea con quanto avviene per i Monopoli Statali (come accade, ad esempio, per il sistema di autorizzazione preventiva per sale slot). Lasciando al Governo la definizione dei criteri e dei quantitativi e alla Prefettura l’autorizzazione per l’apertura dell’attività, quest’ultima potrebbe perfezionarsi con un meccanismo di silenzio assenso, dopo i 30 giorni dall’invio della richiesta da parte degli interessati.

LA SFIDA DENTRO L’EMERGENZA DEL DOPO PANDEMIA

Alla luce della palese inefficacia qualitativa, quantitativa e ideale della legislazione sulle droghe nel nostro paese, riteniamo i tempi ormai maturi per una riflessione politica e legislativa che rappresenti una svolta.
A qualcuno potrebbe sembrare quantomeno azzardato rilanciare una prospettiva di riforma radicale in un settore fortemente ideologizzato come quello delle droghe, proprio in un fase in cui l’Italia, ancora scossa dalla pandemia, si trova a fare i conti con i suoi tanti e devastanti effetti, economici e sociali.
Eppure il Covid 19, tra contestazioni e polemiche, ha tragicamente riportato alla ribalta delle cronache nazionali, tutte insieme, le tante falle del sistema carcere in Italia: dalle precarie condizioni sanitarie dei penitenziari, alla scarsità di dotazioni e risorse, fino all’atavico e cronico problema del sovraffollamento delle sue celle. E se il carcere diventa uno dei fronti più delicati della battaglia all’epidemia, non possiamo ignorare che 1 detenuto su tre è attualmente tossicodipendente e che quasi un terzo degli ingressi è legato alla violazione dell’art. 73 T.U. 309/90.
Ritornando idealmente al punto di partenza, si può concludere con l’affermare che gli obiettivi a cui punta la riforma sono due. Da un lato, quello di riportare la politica sulla strada indicata dalla scienza, dalla cultura, dall’esperienza, coerentemente con il metodo evidence–based promosso dagli organismi europei. Le politiche sulle droghe non possono più essere lasciate alle sensibilità e alle ideologie del decisore politico di turno, ma devono saper rappresentare il frutto della ricerca, delle esperienze maturate sul campo da operatori che hanno sperimentato servizi innovativi, di prossimità, di Riduzione del Danno. Non a caso, nelle ultime due edizioni del Libro Bianco, il tema della ricerca ha trovato ampi spazi di approfondimento.
Dall’altro lato, l’obiettivo è quello di consegnare una strategia politica e culturale di regolazione sociale che ponga al centro i diritti umani, secondo l’approccio che si sta facendo strada a livello internazionale nella valutazione delle politiche sulle droghe; da quello alla salute all’autodeterminazione. Uno scenario nel quale le persone siano messe in condizione di poter fare scelte libere, competenti e autoregolate nell’uso di sostanze; i consumatori ad alto rischio non vengano assoggettati all’attuale stato di criminalizzazione e stigmatizzazione, né rinchiusi in carcere, ma al contrario venga garantito loro il diritto alla salute e alla funzionalità sociale; dove le risorse pubbliche possano finalmente essere destinate al contrasto delle grandi organizzazioni criminali.
Forse l’emergenza, così come accaduto in passato durante altri momenti storici di grandi criticità, può sollecitare un passo in avanti di così grande portata.