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Si parla da tempo di istituire un controllo dei luoghi di detenzione. Forse il racconto delle condizioni di vita a cura di Antigone può riproporre la questione. Un protagonista indiscusso ha solcato le scene della politica negli ultimi anni. Da un trentennio in qua, gli spazi formali di relazione sociale si sono andati via via riempiendo di un’immediata materialità: il corpo umano, con il suo carico di concretezza e individualità, è stato l’oggetto principe della nostra riflessione, del radicarsi degli schieramenti, della produzione normativa, dell’iniziativa politica. 11 corpo che ci identifica, il corpo che si riproduce, che è potenziale donatore di organi o potenziale malato terminale.

Un anno fa fu Piergiorgio Welby a rappresentare il momento più alto di partecipazione collettiva a una pubblica riflessione, un uomo che chiedeva di poter sospendere la vita artificiale del proprio corpo malato. Oggi le Nazioni Unite votano la moratoria della pena capitale. La pena di morte non è soltanto la pena estrema, la massima punizione che sia dato immaginare, ma è anche e soprattutto l’estremo dominio sul corpo, il potere sommo di uno Stato che decide della fine di una esistenza umana.

E poi c’è il corpo recluso, privato della sua libertà di movimento, esposto a tutti i rischi della sua condizione. Del corpo recluso ci parla Diritti e castigo. Il rapporto sulle istituzioni totali italiane del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura, a cura di Susanna Manetti e Gennaro Santoro dell’Associazione Antigone, uscito recentemente per le edizioni Carta. Il libro rende disponibili in lingua italiana i rapporti del Comitato relativi alle sue due ultime visite all’Italia, quella periodica del 2.004 e quella ad hoc di due anni successiva.

Il Cpt è un organismo del Consiglio d’Europa istituito per monitorare le condizioni di vita all’interno di tutti quei luoghi nei quali una pubblica autorità priva chiunque della propria libertà personale, perché condannato a scontare una pena (carceri), perché forse lo sarà (carceri o caserme o camere di sicurezza), perché privo di qualche requisito amministrativo (centri di permanenza temporanea e assistenza per stranieri), perché incapace di intendere e di volere (ospedali psichiatrici o luoghi dove si attuano trattamenti sanitari obbligatori) e via dicendo. Il Comitato controlla che le persone private della libertà non vengano assoggettali a pratiche di tortura, né sottoposti a trattamenti o pene inumane e degradanti.

Ben 47 Stati hanno deciso di rinunciare a una parte considerevole della propria sovranità – da un punto di vista simbolico quanto effettuale -, permettendo agli ispettori europei di accedere senza preavviso al luoghi di privazione della libertà, di parlare privatamente con chiunque, di visionare ogni documento rilevante. L’Italia è ovviamente tra questi.

Il Comitato per la Prevenzione della Tortura visita i luoghi di detenzione e li descrive in rapporti, che presentano rilievi e raccomandazioni. Eppure, come tutti gli organismi sovranazionali che si occupano di diritti umani, non buca gli schermi e non riscalda i cuori. In pochi sanno della loro esistenza, perfino tra gli addetti ai lavori (recentemente, proprio in Italia, gli ispettori del Cpt rischiarono di finire in manette ad opera di un agente di polizia troppo zelante e ignaro della loro funzione e del loro status diplomatico riconosciuto dalle convenzioni internazionali).

Ciò rende ancora più urgente la diffusione di una cultura dei diritti umani: e, in quest’ottica si inserisce la previsione di un’autorità nazionale indipendente di controllo dei luoghi di detenzione. E dal lontano 1997 che se ne parla, di un Garante delle persone private della libertà, e ancora una volta lo scioglimento anticipato della legislatura ne ha lasciato a metà del guado il disegno di legge istitutivo, mentre crescono e si diffondono le sperimentazioni ali- vello regionale e locale.

Diritti e castigo ci dà conto, contribuisce a riproporre nella prossima legislatura due proposte di legge: la prima è quella, appunto, istitutiva del Garante dei diritti dei detenuti; la seconda è la previsione del reato di tortura nel nostro codice penale, adempiendo così a un ventennale obbligo internazionale. La parola “tortura” e il concetto che le corrisponde sono da utilizzarsi in modo aperto. Il potere dello Stato sul corpo dell’individuo può trasformarsi in quanto di più crudele e pericoloso per la democrazia. Tanto più oggi, quando urla di emergenza vorrebbero relegare in secondo piano i diritti umani.

Come dice Zygmunt Barman, nell’intervista che si può leggere nell’ampio apparato introduttivo di Diritti e castigo (che contiene anche contributi di Loic Wacquant e del presidente del Comitato per la Prevenzione della Tortura, l’italiano Mauro Palma), gli Stati contemporanei sembrano costruire la loro autorità sulla vulnerabilità personale, piuttosto che sulla protezione sociale. I rapporti del Cpt e iniziative editoriali come questa ci indicano una via per sottrarre la vita umana all’arbitrio del potere e per restituire alla politica la responsabilità del bene comune e della libertà individuale.