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Articolo di Leonardo Fiorentini pubblicato su l’Unità del 12 settembre 2024.

Ennesimo colpo della Giustizia amministrativa alla crociata del Governo contro la canapa a basso contenuto di THC. Dopo l’annullamento nel 2023 del divieto d’uso di infiorescenze e foglie contenuto nel Decreto ministeriale sulle Piante Officinali, il TAR del Lazio ieri ha sospeso, di nuovo, il decreto che inseriva le preparazioni ad uso orale contenenti cannabidiolo (CBD) nella tabella dei medicinali del Testo Unico sugli stupefacenti.

Non è servito dunque il gioco di prestigio del Ministro Schillaci, che giusto tre mesi prima del giudizio di merito sul primo decreto, previsto per metà settembre, ne ha emanato un altro, identico, anche se stavolta corredato dai pareri “aggiornati” di Consiglio Superiore della Sanità e Istituto Superiore della Sanità.

Pareri che, secondo la relazione tecnica depositata da Canapa Sativa Italia e dagli altri ricorrenti “non forniscono una risposta chiara e diretta” rispetto ai rischi del CBD. Si tratta di “affermazioni generiche” e “raccomandazioni per ulteriori studi” che fanno tornare alla mente la sentenza della Corte di Giustizia Europea che nel 2020 ha deciso che il divieto di commercializzazione del CBD potrà essere conforme alla normativa comunitaria solo se “l’asserito rischio reale per la salute non risulti fondato su considerazioni puramente ipotetiche”.

Per provare ad attutire il colpo, il Dipartimento Antidroga (DPA) ha subito precisato che la decisione del TAR “non ha alcuna connessione con l’emendamento sulla cannabis all’art. 18 del DDL Sicurezza”. Associando poi infiorescenze e derivati della cannabis light a marijuana e hashish, in un’iperbole lessicale utile solo a costruire allarme dove non c’è. Curioso che fosse stato lo stesso DPA, giusto il giorno prima, ad avere concluso una nota a difesa dell’emendamento, citando come ulteriore giustificazione proprio l’inserimento del CBD nella Tabella dei medicinali del DPR 309/90.

Il Governo si arrampica sugli specchi. Si scrive di “prodotti che favoriscano alterazioni dello stato psicofisico” quando sono fiori di piante a basso contenuto – massimo lo 0,2% – di THC, il principio attivo psicotropo della cannabis. Queste certo contengono altri cannabinoidi non psicoattivi a più alte concentrazioni, principalmente il CBD. Provengono da sementi registrate dall’Unione Europea, la cui coltivazione è consentita dalle Convenzioni Internazionali, dai Regolamenti UE e dallo stesso Testo Unico sulle droghe italiano. Sulla pericolosità del CBD si è espressa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per la quale “non è psicoattivo e non vi è evidenza di dipendenza o abuso”. L’OMS aveva persino raccomandato alla Commissione droghe dell’ONU di esplicitare che le “preparazioni farmaceutiche che contengono meno dello 0,2% di THC non devono essere sotto il regime di controllo delle convenzioni ONU”.

Per recuperare consenso si evoca poi la sicurezza stradale: ma di fronte al crescente processo di regolamentazione legale della cannabis, la comunità scientifica è stata più volte sollecitata sulla questione della guida dopo aver assunto cannabis (ad alto contenuto di THC). I risultati sono variegati, ma tali da convincere la Germania a fissare un limite di THC nel sangue di 3.5 ng/mL. Valore che sarebbe davvero irrealistico superare con la cannabis light.

Viene poi citata la decisione della Corte di Cassazione sull’illiceità del commercio delle infiorescenze di cannabis light (SU 30475/2019) omettendo di considerare che quella stessa sentenza si conclude con la formula “salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”. Principio che, insieme a quelli della proporzionalità, tipicità e ragionevolezza, sarebbero evidentemente compromessi dall’assoggettare un prodotto non stupefacente alla normativa sugli stupefacenti. Si crea così un loop normativo e giurisprudenziale: si rinviano le condotte legate alla cannabis light al Testo Unico sulle droghe che però esplicitamente consente la coltivazione delle piante da cui derivano (art. 26), mentre la giurisprudenza tossicologica ritiene ormai unanimemente non stupefacente – e quindi non penalmente rilevante – la sostanza contenente meno dello 0,5% di THC.

Nascondendosi dietro la foglia di fico del “voler chiudere solo i cannabis shop”, il Governo con la norma del DDL Sicurezza toglie a tutti la possibilità di utilizzare le infiorescenze e i loro derivati anche per usi alimentari, cosmetici, o come integratori. Limita così la redditività della coltivazione alle sole parti meno pregiate, mettendo quindi a rischio l’intero settore della canapa in Italia.

Incurante della scienza, delle indicazioni dell’OMS, delle Convenzioni internazionali, dello stesso Testo Unico sulle droghe e della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, della Corte Suprema di Cassazione e della Giustizia Amministrativa il Governo Meloni, alla ricerca continua di un nemico, crea un non senso giuridico. Vuole vietare la vendita di fiori che non hanno nulla di stupefacente, ostacolare la filiera della canapa e l’uso dei suoi derivati non psicoattivi esclusivamente per motivazioni ideologiche. Ma non ha nemmeno il coraggio di dirlo.