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L’appuntamento è fissato per le otto e mezza a Baalbek, una cittadina molto vivace, famosa per le splendide rovine romane che ogni anno attiravano migliaia di visitatori. Le strade sono affollate, ma di turisti neanche l’ombra. Rawad, che ha un minimarket aperto 24 ore su 24, mi spiega che è colpa della guerra: “Lo scorso anno di questi tempi c’erano europei, americani e giapponesi. E gli alberghi erano pieni. Adesso di rado vediamo qualcuno, pochi anche gli arabi dai paesi vicini e ancor meno quelli che arrivano dal golfo”. Poi a denti stretti maledice gli aerei israeliani e lancia un’occhiataccia al cielo. Stiamo qualche minuto in silenzio poi gli tendo la mano, lui mi tende la sua, nerboruta e calda.

Il mio tramite è un giovane tassista. Crede che io sia a Baalbek per un “affare” e io non mi prodigo a spiegargli che le cose stanno diversamente. In macchina mi dice che lui con l’hashish non c’entra nulla. Ma subito si contraddice: “Qui tutti fanno affari con la droga… hashish, oppio, eroina e cocaina”. Imbocchiamo una strada larga che si dirige verso sud ovest, senza lasciare la città. Ai lati della carreggiata, negozi e qualche ristorante, più oltre case basse con i mattoni di cemento a vista del tutto simili a quelle dei campi palestinesi in Siria. Scoprirò più tardi che si tratta di costruzioni abusive. Interi quartieri sottratti al demanio ed edificati decenni fa dagli abitanti dei villaggi della valle.

La Mercedes si ferma di fronte a un negozio di elettronica. Il tassista entra, dice due parole al ragazzo dietro il bancone e poi mi fa scendere. Nel locale, che è evidentemente una copertura tanto è spoglio – due o tre telefonini in una vetrinetta e qualche altro articolo polveroso su un espositore – ci sono anche tre ragazze. Il tizio dietro il bancone fa un cenno con la mano e quelle si alzano e spariscono in strada. Si chiama Nizar e ha venticinque anni. Parla un inglese piuttosto approssimativo, almeno quanto il mio arabo, ma riusciamo a capirci. Lui – mi dice – fa parte della famiglia. Poi senza remora alcuna, ad alta voce e senza giri di parole mi chiede cosa voglio. “Hashish?” domanda sollevando il telefono. Gli rispondo che sì, è l’hashish che mi interessa, ma che sono venuto solo in perlustrazione. Poi prende a parlare dentro la cornetta. Chiede al suo interlocutore se Hammude è già a casa. Si gira verso di me: “Cocaina? Very good quality…”. Devo sembrare un po’ nervoso e preoccupato perchè aggiunge “mefi musckila… nessun problema”. Mi guardo attorno e mi chiedo che c’entra la cocaina con la Valle della Bekaa. Sapevo dell’erba e dell’oppio e invece pare che loro siano molto più interessati al commercio della polvere bianca.

Una Mercedes nera parcheggia con gran fracasso fuori dal negozio. È Hammude, il fratello di Nizar. Avrà si e no vent’anni, ma si comporta da caporale col fratello maggiore. Mi stringe la mano e poi si mettono in un angolo a confabulare. Mi dice di seguirlo, salgo in macchina e partiamo. Ci addentriamo in un dedalo di viuzze buie che mi sembrano troppo strette per l’auto su cui viaggiamo e, ad ogni svolta, rischiamo di andare a sbattere. In una decina di minuti arriviamo a destinazione. Davanti a noi sono parcheggiati tre pick up enormi e altre tre Mercedes come quella del mio autista. Oltre, una grande casa bassa. Eccoci al dunque. Hammude scende e io lo seguo. Entriamo e mi ritrovo in una specie di salotto. Sono solo. Poco dopo compare un ometto seguito da una piccola corte. Si accomodano e l’ometto fa le presentazioni. Si chiama Alan ed è il capofamiglia. Una famiglia importante la sua. Vengono da un villaggio sulle alture intorno a Baalbek. È là che ci sono i campi. Ogni villaggio, una famiglia. E decine di ettari coltivati a canapa indiana e papavero da oppio.

Alan non perde tempo, davanti alla famiglia riunita al gran completo mi chiede quanto hashish voglio comprare. Gli spiego che sono lì per guardarmi un po’ intorno, poi gli confesso che sono un giornalista, ma la cosa non sembra importargli granché. Di nuovo mi viene proposta della cocaina. Incuriosito chiedo se si tratti di un loro prodotto: no, mi dice sorridendo, viene dal Sud America. Un altro figlio – in tutto sono dieci, forse undici – fa il suo ingresso. Ha con sé un sacchetto trasparente, dentro una trentina di grammi di Red Lebanon, l’Hashish libanese. L’odore è penetrante. Alan è fin troppo schietto: bastano poche centinaia di dollari per acquistare un chilo di “fumo”.

“Nessun problema con la dogana – mi dice in un inglese perfetto – il servizio è completo, pensiamo a tutto noi”. Chiedo spiegazioni, ma Alan ripete: “Servizio completo… la mia famiglia è molto forte”. Più della polizia? “La polizia – dice Alan sibillino – non c’entra…” Mi viene servito del caffé. L’ospitalità è, come in tutti i paesi arabi, disarmante. Mi chiedono di restare a dormire “così domani andiamo al villaggio”. Declino mestamente l’offerta. “Se cambi idea la mia casa è la tua… hai l’età di mio figlio e quindi sei come mio figlio”. Alan ha capito che l’affare con ogni probabilità non andrà in porto, ma niente cambia. Altro caffè e altri inviti: “Torna pure quando vuoi, questa è la tua casa”.

Un calo di tensione e restiamo al buio. Leandele si accendono veloci, sono sempre lì a portata di mano. “Questo è il governo libanese – sospira Alan – qualche ora di elettricità al giorno… dobbiamo arrangiarci in ogni cosa”. Poi un generatore parte e torna la corrente. “Grazie al cielo c’è Hezbollah”. Ci tiene a specificare che lui non fa parte del movimento, non la pensa come loro. Ma Hezbollah fa tutto quello che non fa lo stato: “Le strade, gli ospedali… e poi ci ha difeso e ci difende, tutti, cristiani o musulmani non importa”. Chiedo dei bombardamenti. Mi dicono che chi poteva è tornato al villaggio, là era più sicuro. E gli affari come vanno adesso? “La produzione è aumentata dopo la guerra, forse decuplicata. Non ci sono soldi e canapa e papavero rendono molto di più dei girasoli e delle vigne”. Certo non è più come una volta, “Ma inshallah…”, dio volendo. E i cugini siriani? Damasco da qui dista qualche decina di chilometri. “Era meglio quando c’erano loro”, mi risponde senza alcun tentennamento. “Hanno portato pace e prosperità, poi se ne sono andati e adesso siamo ancora dietro a darci battaglia gli uni contro gli altri”. E l’indipendenza, l’autodeterminazione? “Bisogna meritarsele e noi non ce le meritiamo”.

Sono le undici e mezza. Alan deve andare a comprare della benzina per il generatore, mi chiede per l’ennesima volta se voglio fermarmi a dormire, di nuovo declino l’offerta. “Allora lascia che ti accompagni all’albergo”. Sul pick up in bella vista nell’incavo del cruscotto una pistola automatica. Cerco di non farci troppo caso. Siamo arrivati. Alan mi abbraccia. “Pensa all’affare e quando torni organizziamo tutto, servizio completo, tamam?” Va bene… va bene.