Tempo di lettura: 7 minuti

(Massimo Alberico su Voce) I cartelli messicani sono diventati i piu’ potenti narcotrafficanti d’America. Il paese centroamericano rischia di diventare un narco-stato
Città del Messico, 12 marzo 2008 – Il Messico sta vivendo la più grande crisi della sua storia. Nel paese è in corso una guerra spietata tra lo Stato e alcune delle più temibili organizzazioni criminali del Pianeta. E la nazione centro americana, caratterizzata da una democrazia giovane e ancora molto fragile, rischia di non superare la spaventosa prova a cui è sottoposta.
In Messico la chiamano la guerra “de los cuernos de chivos”, delle corna di vacca, dal nomignolo dato dai killer mafiosi alla loro arma preferita, l’AK-47, o Kalashnikov, così chiamato a causa della forma ricurva del suo caricatore da 70 colpi. La sua estrema maneggevolezza, la grande affidabilità e il basso costo ne hanno fatto non solo l’arma preferita di mercenari e truppe d’assalto in tutto il mondo, ma anche dei gruppi di fuoco delle potentissime organizzazioni messicane.
Dal 2001 al 2007 la guerra delle “corna di vacca” ha provocato più di 12 mila morti. E’ una guerra che non risparmia nessuno, giornalisti, poliziotti, funzionari, e uomini di chiesa, oltre alle centinaia di mafiosi che si ammazzano a vicenda per il controllo delle zone di coltivazione e distribuzione della droga, e per la supremazia in innumerevoli attività illegali. Attraverso il Messico passano ogni anno il 70 per cento della cocaina ed il 50 per cento della marijuana distribuite negli Usa. Cifre da capogiro.

È cominciato tutto agli inizi degli anni 80, con la guerra alla droga del presidente Ronald Reagan e di George Bush, all’epoca vice presidente. Bush si occupò di mettere in piedi un gigantesco dispositivo di controlli marittimi e aerei per frenare l’arrivo delle navi e dei velivoli che, passando dai Caraibi, innondavano gli Stati Uniti di cocaina in provenienza dalla Colombia. I potenti cartelli colombiani, che avevano in mano una grossa fetta del traffico di cocaina verso il Nord America, si adattarono rapidamente alla nuova situazione, e presero accordi con i piccoli contrabbandieri messicani per trasportare la coca via terra, attraverso la lunghissima frontiera che corre lungo il Rio Grande.
Grazie alla collaborazione con i colombiani le famiglie di piccoli contrabbandieri iniziarono ad arricchirsi, trasformandosi rapidamente in veri e propri cartelli mafiosi. La svolta avvenne nel decennio successivo, quando le grandi organizzazioni colombiane dedite al narcotraffico, in particolare i cartelli di Medellin e di Cali, subirono una serie di gravissimi rovesci.
I capi più importanti come Pablo Escobar, i fratelli Orejuela, la famiglia Ochoa e Gonzalo Gacha furono uccisi o arrestati dai servizi di sicurezza, e le organizzazioni colombiane finirono per perdere il controllo della fase finale del trasporto e della distribuzione a scapito di quelli che fino a poco tempo prima erano solo semplici “campesinos”. I cartelli messicani cominciarono così la loro inarrestabile ascesa verso l’Olimpo della criminalità mondiale.
I messicani sono particolarmente attivi nel traffico di droga ( marijuana, cocaina, eroina), nei sequestri di persona, nel contrabbando di armi e carburante e, secondo recenti rapporti del Dipartimento della giustizia americano, detengono il monopolio nella produzione e la vendita delle meta-anfetamine. Una droga di sintesi, un’anfetamina potentissima e pericolosa, che può provocare danni cerebrali gravissimi e lesioni nervose anche se utilizzata saltuariamente. E’ chiamata appunto “cocaina dei poveri” e, grazie soprattutto ai cartelli messicani, si sta diffondendo con straordinaria rapidità in tutta l’America del Nord, specialmente negli stati rurali. I profitti generati dall’insieme di questi traffici supera di gran lunga il budget dell’FBI e di tutti servizi di sicurezza messicani messi assieme.
Un altro elemento connesso alla presa di potere da parte di questi clan, è il vertiginoso aumento delle tossicomania all’interno del paese, un fenomeno che sta prendendo delle dimensioni allarmanti. Ma la politica del governo messicano è incentrata quasi completamente sulla repressione, per cui spende 20 volte di più che per la prevenzione. I narcos hanno ugualmente approfittato dell’abbandono delle campagne. Nell’ottobre del 2007, il Ministero dell’agricoltura messicano stimava che le piantagioni di stupefacenti (oppio e cannabis) coprivano almeno un terzo delle terre coltivate (9 milioni di ettari per le droghe: 8,5 milioni per il mais). Per loro coltivazioni i narcos arrivano a pagare i contadini 400 mila pesos per ogni ettaro coltivato (26 mila euro), mentre con il mais ne guadagnano all’incirca 12 mila (800 euro).
L’ascesa dei clan messicani coincise con quella di Felix Gallardo, colui che diventerà il trafficante più potente del paese. Nato in un povero villaggio vicino alla città di Culiacàn, nello stato di Sinaloa, è stato agente di polizia e guardia del corpo del governatore Leonardo Sanchez Celis, il suo “padrino” politico. Già verso la metà degli anni 80 Gallardo era alla testa del cartello più potente della federazione messicana, quello di Sinaloa, con un patrimonio personale stimato a 10 miliardi di dollari. Dopo aver ordinato il rapimento, la tortura e l’omcidio di un agente della DEA, Gallardo si ritrovò al primo posto sulla lista dei criminali più ricercati negli Stati Uniti e, nel 1989, venne arrestato e incarcerato.
Dopo il suo arresto, la figura di spicco del mondo dei narcos messicani divenne Amado Carrillo Fuentes, leader del cartello di Cudad Juarez, una città situata sul confine tra Messico e Stati Uniti.
Carrillo Fuentes era soprannominato “il signore dei cieli”, per via della flotta di boeing con cui trasportava tonnellate di coca dalla Colombia al Messico. Secondo fonti della DEA, verso la metà degli anni 90 il cartello di Ciudad Juarez, gestito da Carrillo Fuentes, era giunto a guadagnare 200 milioni di dollari a settimana. Per un certo periodo è stato sicuramente l’uomo più ricco di tutta la federazione messicana. Il massimo responsabile nella lotta antidroga, il generale Jesus Gutierrez Rebollo, era un suo dipendente. Il “signore dei cieli” morì nel 1997, durante la fase post operatoria di un intervento estetico che doveva cambiare per sempre il suo volto.
Dopo la morte di Carrillo Fuentes, la gestione della più grande organizzazione criminale d’America Latina passò nelle mani di un direttorio composta dai fratelli di Amado, Vicente e Rodolfo, dal narcos Ismael Zambada e dal capo del cartello di Sinaloa, Joaquin “El Chapo” Guzman.
Nel 2003 il cartello del Golfo e quello di Tijuana si sono alleati per contrastare la potenza della gente di Ciudad Juarez.
Il sodalizio è stato concluso all’interno del carcere di massima sicurezza di Las Palmas, non lontano dalla capitale. Nel gennaio 2006, dopo un lungo sciopero della fame che sfociò in una violenta sommossa, l’esercito fu costretto a dispiegare due reparti di forze speciali e 20 carrarmati attorno al complesso carcerario, per evitare che Osiel Cardenas, il capo del cartello del Golfo, e alcuni membri della famiglia Arellano Felix, alla testa di quello di Tijuana, potessero evadere.
Il cartello del Golfo, basato nello stato di Tamaulipas, è sicuramente quello più sanguinario di tutti. Osiel Cardenas Guillen raggiunse il vertice dell’organnizzazione dopo l’arresto e la reclusione nel 1996 del boss di allora Juan Abrego, rinchiuso nel carcere di Houston, e dopo aver ammazzato il suo successore Salvador Gomez Herrera. Quelli del Golfo sono stati i primi a praticare la decapitazione sistematica delle vittime.
Osiel Cardenas ha incorporato alla propria Organizzazione un gruppo di killer conosciuto con il nome di “los Zetas”, gli Zeta, composto interamente da ex membri delle forze speciali dell’esercito, quasi tutti provenienti dal GAFES, Grupo aeromòvil de fuerzas especiales, addestrati alle tecniche di contro-guerriglia nella famigerata “Scuola delle Americhe” di Fort Benning in Georgia. Prima di venire assoldati da Cardenas a suon di milioni, hanno dato la caccia agli zapatisti nelle foreste del Chapas. Perennemente vestiti di nero, si spostano su grossi fuoristrada blindati e utilizzano armi da guerra di ultima generazione, con visori notturni e mirini al laser. Sempre secondo la DEA, per gli omicidi di alti funzionari statali e di polizia, i cartelli ricorrerebbero ai servizi di mercenari americani, europei e israeliani, pagati da 50 a 250 mila dollari per ogni contratto.
Le violenze hanno subito una drastica impennata a partire dal 2001, più precisamente dall’11 settembre. Lo sconvolgimento mondiale seguito al crollo delle due torri, ha finito per avere gravi ripercussioni anche sul mondo dei narcos messicani. Fino a quella tragica mattina ogni grande gruppo mafioso disponeva di un segmento di frontiera sul quale esercitava un’autorità assoluta. Esse costituivano la piattaforma d’appoggio alla catena di distribuzione dei narcos negli Stati Uniti. Con la caduta delle Torri Gemelle questa situazione idilliaca terminò bruscamente. Una delle prime decisioni prese dall’amministrazione americana dopo l’attentato è stato di chiudere ermeticamente le frontiere. Questo giro di vite in materia di sicurezza alle frontiere è stato all’origine della sanguinosa guerra per il controllo dei pochi spazi disponibili che continua a mietere vittime tra i trafficanti e la popolazione civile.
Nel 2006 il neo presidente Felipe Calderon ha dispiegato l’esercito nelle regioni in cui i narcos hanno il controllo del territorio, ottenendo risultati non indifferenti. Il 2007 è stato infatti un anno di sequestri record e arresti eccellenti. I cartelli hanno reagito con un intensificazione delle violenze: attentati, decapitazioni, mutilazioni torture e esecuzioni, spesso filmate, per dare l’impressione che il paese stia diventando ingovernabile. Il Messico chiede da tempo, e con insistenza, che gli Stati Uniti si impegnino con più energia nella lotta contro i cartelli messicani, anche perchè la quasi totalità della droga è destinata al mercato americano.
Gli Stati Uniti si stanno rendendo conto che quella dei cartelli messicani sta diventando una questione di sicurezza nazionale. A Washington sono in corso le discussioni per mettere a punto un’iniziativa congiunta, chiamata Merida, che prevede un aiuto per 1,4 miliardi di euro su tre anni. Il Messico, da parte sua, ha richiesto all’America un drastico aumento di controllo sulla circolazione delle armi e dei capitali, perché come la droga, anche la maggior parte degli ingenti capitali derivanti dalla sua vendita, finiscono in istituzioni finanziarie e banche americane.
Il problema più urgente è sicuramente quello del traffico d’armi. Al di là della frontiera ci sono più di 15 mila negozi di armi. In teoria i titolari di queste attività dovrebbero verificare se l’acquirente ha precedenti penali. Ma pagare qualche incensurato per andare ad acquistare fucili e pistole è sicuramente alla portata degli spietati cartelli del Messico. Ma è soprattutto in occasione delle numerose fiere (gun show), che i criminali possono comprare fucili d’assalto e mitragliatrici da guerra senza che nessuno chieda loro nulla.
Con il denaro generato dai traffici e con il terrore causato dalla loro brutalità, questi gruppi criminali stanno allungando le mani sulla politica. Infatti non sono molti i funzionari che hanno la dignità, il carattere e un senso dello Stato tanto forte da resistere alla pressione di queste organizzazioni. Secondo diverse fonti messicane, la maggior parte dei comuni governati dal PAN (Partido de accion nacional) dell’ex-presidente Vicente Fox e dell’attuale capo di stato Felipe Calderon, siano stati comprati dai signori della droga. Ma d’altra parte nessuna forza politica, almeno a livello locale, sembra sfuggire alla loro influenza.
Il Messico è malato. Quella dei cartelli della droga è una piaga purulenta che rischia di trasformarsi in cancrena. Il paese centro americano avrà bisogno di tutte le sue risorse per poter venirne fuori. Ogni messicano onesto ha un ruolo da giocare. L’America dovrà fare, ovviamente, la sua parte, perché se non si troverà il modo di fermare quelle poderose organizzazioni criminali, ci sono buone possibilità che si ritrovi come vicino meridionale un “narco-stato” da 110 milioni di persone. E non è una bella prospettiva.