Istigazione e plagio

Sono stato ricoverato nell'agosto 1996 in ospedale per miei usuali problemi epatici. In quella occasione ho conosciuto un ragazzo, ricoverato nel medesimo reparto. Mi è sembrata una persona simpatica, ma terribilmente condizionata dalla famiglia (di destra, il nonno fu anche un parlamentare fascista). Per questo gli consigliai alcune letture, anche se sosteneva che leggere gli risultava difficile. Compilai per lui una lista di libri sull'argomento droghe, aggiungendo anche tre consigli, due sulla lettura, uno sulla figura dell'educatore in genere.

I libri consigliati sono tutti in vendita. I consigli sulla lettura erano estrapolati da un testo di Pennac; gli suggerivo di sottoporre a vaglio critico qualunque insegnamento gli venisse impartito (da qui l'importanza del leggere e del documentarsi).

Il biglietto venne trovato dalla madre, che mi affrontò nei corridoi dell'ospedale, tirandomi un ceffone. La querelai.

Passatami l'"arrabbiatura" ritirai la querela (mi è toccato pure pagare settanta "carte" di tasca mia!). A quel punto, però, il giudice, presa visione di tutta la faccenda, decise di procedere d'ufficio.

Ho subito una perquisizione domiciliare e mi è stato contestato l'art. 82, primo e secondo comma DPR 309/90: "svolgeva opera di proselitismo all'uso di marijuana, sostanza inclusa nell'elenco degli stupefacenti, nei confronti del minorenne XY (di anni 17), istigandolo a fumare canapa indiana e fornendo all'uopo scritti e libri inneggianti all'uso di tale sostanza stupefacente".

L'udienza preliminare si è svolta il 7 febbraio del 1997, sono stato rinviato a giudizio l'11 novembre 1997. All'approssimarsi di tale scadenza mi è stato comunicato il successivo rinvio al 27 ottobre 1998.

Giudicate voi...

Ciao,
Giacomo, Imperia

 

La storia di Giacomo, con il commento dell'avvocato Salerni che riproduciamo qui a fianco, è stata pubblicata il 3.11.98 su Fuoriluogo.

La vicenda ha avuto un seguito, una volta tanto 'a lieto fine'. Il 27 ottobre '98 il giudice ha emesso una sentenza di assoluzione "perchè il fatto non sussiste".

Tutto bene, quindi?
Quasi. Pur avendo vinto la causa, infatti, Giacomo dovrà sborsare quasi 5 milioni, dicasi 5 milioni, di spese processuali.

Una misura che ha il sapore di una beffa e che crea non pochi problemi a Giacomo che attualmente non dispone di questa somma.

Non possiamo che rivolgergli la nostra incondizionata solidarietà.

Il parere dell'avvocato Arturo Salerni

Il caso narrato ricorda in maniera singolare (anzi "stupefacente") le vicende relative al reato di plagio, sia con riferimento alla vicenda narrata che con riguardo alla struttura della norma incriminatrice (di cui poco si è parlato, ma che evidenzia in modo emblematico i connotati "ideologici" della legge del 1990 sulle sostanze stupefacenti). La norma punisce. tra l'altro, chiunque "svolge, anche in privato, attività di proselitismo" per l'uso illecito di sostanze stupefacenti "ovvero induce una persona all'uso medesimo". La condotta punita è assolutamente priva del requisito della determinatezza, la fattispecie non ha connotati precisi, non consente all'interprete (il giudice) "l'individuazione di un contenuto oggettivo, coerente e razionale e si presta a una assoluta arbitrarietà nella sua concreta applicazione". La frase tra virgolette è riportata dalla sentenza della Corte costituzionale del 1981, con la quale veniva dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 603 c.p. che puniva il plagio. Si trattava di una fattispecie introdotta dal legislatore fascista, e che ha portato a una sola condanna nel 1968, da parte della Corte d'assise di Roma (il famoso "caso Braibanti"). Anche in questo caso l'illegittimità incostituzionale appare palese, va sollevata, e chissà che non riesca a produrre una falla nel sistema complessivo della normativa "proibizionista" in tema di stupefacenti.

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