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Lo Incb (International Narcotics Control Board) nel rapporto 2006, tuona (per l’ennesima volta) contro le “stanze del consumo”, accusando così un congruo e crescente numero di paesi europei che le hanno aperte di non rispettare le convenzioni. E non si perita di mettere in guardia i governi della Bolivia, del Perù e dell’Argentina, impegnati a riconoscere la legittimità della coltivazione e dell’uso tradizionale della foglia di coca: anche questo sarebbe in contrasto con i trattati internazionali, in particolare con la Convenzione Unica del 1961. È curioso che il Board non citi di aver assunto in passato una posizione più flessibile, quando nel 1994 invitava la Cnd (Commission on Narcotic Drugs) a risolvere l’ambiguità circa il tè a base di coca, finito fra le sostanze proibite «al di là delle intenzioni delle conferenze plenipotenziarie che vararono le convenzioni». Una dimenticanza che segnala l’irrigidimento dell’ortodossia proibizionista, forse in vista della scadenza di Vienna 2008.
Ma – è lecito chiedersi – lo Incb ha davvero un mandato istituzionale così ampio da potersi permettere il richiamo all’ordine dei paesi membri? Lo Incb è un organismo le cui origini risalgono alla Lega delle Nazioni, i cui compiti sono stati definiti nella Convenzione del 1961: monitorare il fabbisogno di sostanze narcotiche per scopi scientifici e medici, in modo da autorizzare le coltivazioni necessarie nonostante il regime di proibizione. Solo con la Convenzione del 1971 e del 1988, i compiti dello Incb si sono allargati alla supervisione dell’applicazione delle tre convenzioni Onu. Tuttavia, come osserva Cindy Fazey, lo Incb non è l’arbitro ultimo dell’interpretazione delle Convenzioni, come invece vorrebbe far credere, travalicando le proprie competenze: il Board non ha alcun potere formale di imporre l’applicazione delle Convenzioni, né tanto meno di emanare sanzioni contro gli stati giudicati non ortodossi, perché, in ultima analisi, l’interpretazione delle Convenzioni e la responsabilità di applicarle in conseguenza sono a carico degli stati membri. Ciò spiega come mai le stanze del consumo si stiano espandendo in Europa e anche fuori: semplicemente perché quei paesi interpretano in maniera diversa le convenzioni (la Germania ha perfino varato una legge quadro in materia), e lo Incb non ha alcun potere per imporre la sua lettura dei trattati. Resta l’attacco (politico) alla riduzione del danno, e, soprattutto, il “debordamento” continuo dello Incb oltre le proprie competenze. Finora, solo il governo britannico si è preso la briga di rimettere in riga lo Incb. Lo fece nel 2003, inoltrando una nota ufficiale di protesta contro il Board, che aveva attaccato la decisione del governo di declassificare la canapa. Tra l’altro, si accusava gli “esperti” del Board di non tenere in alcun conto le evidenze scientifiche. Particolare gustoso: la nota era firmata da un sottosegretario, invece che dal ministro competente, a sottolineare la collocazione minore dello Incb. Giovanardi, che si rallegra di essere in linea con lo Incb, è un buon esempio del vecchio detto: Dio li fa e poi li accoppia.

Per saperne di più: Cindy Fazey, “Il rimpatrio della politica delle droghe”, in “La guerra infinita” (2005)