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Per cogliere appieno la svolta del governo sul versante dei servizi, è utile partire dai trattamenti previsti per i consumatori che provengono dal circuito penale. È lì che si coglie appieno il senso della cura, in una proposta di legge che giustifica l’inasprimento punitivo quale via maestra per la terapia “espiativa”.
Cruciale è perciò l’articolo 89: nel testo attuale della legge, esso sancisce che non possa essere disposta la custodia cautelare in carcere «quando imputata è persona tossicodipendente che abbia in corso un programma di recupero», presso i servizi pubblici o le comunità. Nella rielaborazione governativa, si stabilisce che il programma si svolga sempre in regime di arresti domiciliari. Inoltre, nel caso in cui «sussistano particolari esigenze cautelari», il programma può essere svolto solo «in struttura residenziale», leggi comunità. Ancora: è il giudice a stabilire non solo i controlli per accertare la prosecuzione del programma, ma anche «gli orari e i giorni in cui (il tossicodipendente) può assentarsi per l’attuazione dei programmi». Insomma, alla (pur ambigua) “alternativa terapeutica”, si sostituisce tout court la “detenzione terapeutica”.
Come nota Alessandro Margara in queste stesse pagine, molte comunità non accettano persone agli arresti domiciliari. O sarebbe meglio dire: non le accettano le comunità i cui programmi tendono al reinserimento delle persone, e non a isolarle, in nome di esigenze di pura contenzione. Per fare un esempio: in molte comunità, la prima forma di responsabilizzazione degli ospiti è la gestione della struttura con conseguenti uscite a rotazione per fare gli acquisti. O per partecipare a qualche corso professionale, o magari a qualche evento sociale o culturale, così come avviene nella vita “normale”. Insomma, la libertà (di movimento) è terapeutica, ed ecco perché la detenzione in comunità è incompatibile, o estremamente difficoltosa. Di fatto, i detenuti sono esclusi da buona parte della vita dei pari, e quanto questa discriminazione sia “terapeutica”, è facile immaginare.
Con ogni evidenza, non è la cura delle persone che sta a cuore al legislatore, quanto la garanzia che queste siano ben sorvegliate. Perciò sono privilegiate le comunità, rispetto ai servizi territoriali. Non tutte le comunità, ripeto, bensì quelle a vocazione custodiale. E che costituiscono, guarda caso, il punto di riferimento ideale, politico e clientelare del governo. La sovrapposizione fra logica carceraria e terapeutica è completa: non è un caso che alla comunità/carcere, si affianchi la novità del carcere/comunità. Così il privato entra trionfalmente, anche in Italia, nella gestione degli istituti penitenziari. La svolta del governo sta nell’abbandonare la retorica trattamentale, ridotta appunto a niente più che retorica.
Perché “le alternative” alla pena non sono affatto alternative, ma assomigliano tanto a quelle istituzioni segreganti auspicate dalla controriforma psichiatrica del governo, come ci spiega Maria Grazia Giannichedda (a pag. 8). Si ritorna insomma alla logica manicomiale, della “cura e custodia”, appunto. L’impronta di segregazione sociale che presiede alla legge risalta ancora di più, se si pensa che il target dei nuovi utenti è costituito dai giovani consumatori di droghe leggere. È una platea assai vasta, visto che in Europa, così come negli Usa, circa la metà degli studenti delle superiori sperimenta la canapa. Nella stragrande
maggioranza, si tratta di giovani che studiano, o che si avviano a trovare un lavoro, inseriti socialmente, perlopiù. Ragazzi “normali”, si potrebbe dire. Che di sicuro “normali” non saranno più, quando dovranno abbandonare la scuola per un soggiorno “obbligato” in comunità, o troveranno ostacoli nel lavoro o nel tempo libero, grazie alle sanzioni del Prefetto (più severe di prima e non più evitabili). È proprio la “normalizzazione” di certi tipi di consumo, compatibili con la vita sociale, che la legge vuole contrastare, “invalidando” i consumatori, con punizioni vere o mascherate.
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