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Un paio di anni fa, l’Office on Drugs and Crime delle Nazioni Unite (Unodc) guidato da Antonio Costa celebrava nel suo Report 2006 una sostanziale vittoria nella guerra alla droga: livelli record nei sequestri di droghe proibite, declino nella produzione di eroina e cocaina, una certa stabilità nei consumi. A due anni di distanza, il World Drug Report 2008, pubblicato alla fine di giugno, lascia chiaramente intendere come fosse lecito dubitare dell’ottimismo di Costa e compagni.
Se diamo una rapida occhiata ai numeri del Report, vediamo subito le dimensioni dell’insuccesso. Per quanto riguarda i consumi, apprendiamo che a livello mondiale una persona su 20, con età compresa tra i 15 e i 64 anni, ha fatto uso di droghe proibite almeno una volta negli ultimi 12 mesi. In cifre, si tratta di oltre 200 milioni di persone. Il consumo nell’ultimo mese si attesta intorno ai 110 milioni di persone, mentre i consumatori problematici (testualmente: «con severi problemi di dipendenza») sono circa 26 milioni, cioè lo 0,6%. La cannabis, sempre con riferimento agli ultimi 12 mesi, rimane la droga illegale più apprezzata, con circa 170 milioni di estimatori. I consumatori di eroina sono circa 12 milioni, mentre per la cocaina ci aggiriamo intorno ai 16 milioni di persone.

Il commento dell’Office su questi numeri è a dir poco ridicolo. A suo dire, infatti, queste cifre sarebbero un successo, visto che il tabacco uccide 5 milioni di persone all’anno e l’alcol circa 2,5 milioni. A ben guardare, si sottolinea, le droghe proibite uccidono soltanto 200 mila persone… A questo punto, però, c’è da chiedersi se nella (non) logica dell’Office non abbia più senso legalizzare le droghe e proibire alcol e tabacco, consumate da un quarto della popolazione mondiale. Ma su questo, ovviamente, l’Office non si esime dall’alimentare la risata affermando che «se non ci fosse un controllo sulle droghe, anche il consumo di quelle attualmente proibite raggiungerebbe queste cifre, con conseguenze devastanti in termini di salute pubblica».

Ma sono ancor più i dati sulla produzione a smascherare l’Office. Basti pensare che la produzione di oppio è raddoppiata tra il 2005 e il 2007, raggiungendo quota 9.000 tonnellate (oltre il 90% in Afghanistan). Cifre che fanno temere per un «heroin tsunami», un’attesa invasione di eroina sul mercato europeo. La produzione di coca (circa 1.000 tonnellate nel 2007) segna un aumento più contenuto, comunque nell’ordine del 25% in più rispetto al 2005, mentre sul fronte cannabis l’Afghanistan si impone come il maggior produttore di hashish, superando il Marocco.
Il quadro (s’intende: nell’ottica della guerra alla droga) è a dir poco disastroso. Ma questo non pare interessare agli analisti dell’Office. Perché se è vero che la macchina proibizionista ogni tanto sembra incepparsi, sul lungo periodo si è dimostrata non soltanto risolutiva, ma provvidenziale. Ecco allora, che per nascondere le figuracce dell’ultimo decennio (nel 1998 l’Assemblea generale si era posta l’obiettivo di eliminare o significativamente ridurre la produzione di coca, oppio e cannabis dalla faccia della terra nel giro di dieci anni…) l’Office pensa bene di celebrare un secolo di proibizionismo con un approfondimento «speciale»: torna protagonista la Cina, «una volta, un paese dove un uomo su quattro era un drogato», anche se non più come causa del problema da risolvere, ma come esempio del problema risolto. «Non tutto è stato ancora fatto», si dice nel Report, sostenendo che all’inizio del secolo scorso la Cina contava decine di milioni di opium addicts. Tutti questi oppiomani, appunto, sarebbero stati provvidenzialmente recuperati grazie al proibizionismo (a tale proposito si veda, in questa stessa pagina, l’attenta analisi del TransNational Institute di Amsterdam).

Insomma, siamo di fronte ad una celebrazione senza fondamenta e senza senso, anche in quelle parti (comunque minoritarie) meno disarmanti. Anche l’Office, infatti, si è finalmente accorto che la macchina proibizionista «purtroppo produce una serie di conseguenze non volute» (cento anni sono un tempo ragionevole per capirlo!). La prima è che, laddove si vieta, nasce un mercato nero. Senza aspettare un secolo o quasi, bastava forse l’esempio dell’alcol negli Stati Uniti… La seconda è che investire nella sola repressione significa togliere risorse alla salute pubblica. La terza, chiaramente testimoniata dal Report, è che se si interviene in un’area geografica (ad esempio, sulle coltivazioni), la produzione si sposta in un’altra. E che ci si inasprisce su una sostanza, si rischia di promuovere il consumo di un’altra. Anche in questo caso, cento anni di storia regalano una serie infinita di esempi. Lo stesso Report, del resto, quando parla del traffico, sottolinea che «esiste un sistemico spostamento delle rotte». «Sistemico», appunto; non casuale. La quarta, infine, è che l’uso della sola azione penale nei confronti dei consumatori «aumenta la loro marginalizzazione ed impedisce di dare risposte utili proprio a chi ne ha più bisogno».

Peccato che queste riflessioni sulle «conseguenze non volute» non siano seguite da indicazioni precise su come ammorbidire il modello repressivo-punitivo, che le Nazioni Unite si ostinano a sostenere e che anche quest’anno, nel Report 2008, si compiacciono di celebrare.