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Sono due anni che si riparla della legge 180, che ha compiuto vent’anni da poco (13 maggio) ed è tornata in scena due finanziarie fa, quando parlamento e governo hanno preso in mano il compimento del meno controverso dei suoi due pilastri, la chiusura degli ospedali psichiatrici. Molti bilanci dunque, opinioni meno divergenti, la scena pubblica occupata sempre dagli stessi attori – operatori, esperti, amministratori, qualche familiare – che pongono le domande, scelgono i criteri di valutazione, danno le risposte, senza che ci si preoccupi più di tanto del giudizio di quelli che in fondo sono i maggiori interessati, sia in senso quantitativo (non meno di 500 mila persone frequentano oggi i servizi pubblici di salute mentale) che di contenuto: il secondo pilastro della 180 è appunto la piena cittadinanza del malato di mente.

È come se il giudizio e il consenso delle persone che stanno male siano considerati non necessari, e quindi non debbano essere attivamente cercati, suscitati. È come se si continuasse a pensare che il giudizio di una persona che sta male non vale né può pesare, e che la sua cittadinanza è figlia di un dio minore, come è stata a lungo la cittadinanza delle donne, come è tuttora quella dei bambini, come lo è la cittadinanza di chiunque abbia bisogno di tutela, protezione, asilo – il tossicodipendente, gli anziani e i disabili non autosufficienti, le persone molto povere, che generalmente pagano questa tutela al prezzo di loro diritti personali, “minori” perché bisognosi, protetti perché incapaci.

Così, sul filo di questi ragionamenti, con la curiosità vera di ascoltare una voce che in venti anni di dibattito è stata quasi del tutto assente, nella convinzione che il modo migliore per ribadire la cittadinanza di qualcuno sia quello di praticarla, la Fondazione Franco Basaglia ha messo in piedi un anno fa il progetto di andare a chiedere agli utenti una valutazione dei servizi di salute mentale. Questo lavoro è approdato qualche settimana nella conferenza “TUTTI IN GIOCO. Gli utenti dei servizi di salute mentale discutono di cittadinanza e psichiatria con operatori, familiari, amministratori, parlamentari e governo” che ha visto la partecipazione di oltre settecento persone, in maggioranza utenti e giovani operatori, e contributi di grande qualità, che hanno creato una situazione intellettualmente stimolante e molto ricca sul piano affettivo. Buona anche la risposta delle istituzioni, che hanno aderito alla proposta di creare una Conferenza nazionale salute mentale che ogni due anni faccia il punto con tutti gli attori, cittadini utenti inclusi. Contraddittorio, come da attese, il panorama delle strutture psichiatriche: porte chiuse, contenzione, privazione di oggetti personali segnano la maggioranza delle esperienze di ricovero ospedaliero; quello della clinica privata è un tempo vuoto, giornate attutite dai farmaci e cicli di elettroshock; mentre i centri di salute mentale talvolta sono catene di montaggio di farmaci e colloqui, talaltra luoghi di approdo, di vita e di progetto.

Ma la parte più interessante di questa esperienza non è qui, nelle immagini, spesso molto lucide ed espressive e a tratti francamente divertenti, della “psichiatria vista dalla luna”, per citare il primo titolo del progetto. Sta piuttosto nel processo di costruzione della mobilitazione degli utenti e in ciò che ha evidenziato.

Due parole su come si è lavorato. Il contatto con gli utenti è avvenuto tramite associazioni, cooperative e servizi di salute mentale. Mediazione minima degli operatori, che organizzavano l’incontro in cui la Fondazione Basaglia presentava la proposta di “…costituire gruppi di lavoro per capire e far capire che cos’è la psichiatria oggi, pubblica e privata, …quali sono i problemi specifici delle persone che utilizzano la psichiatria, e quali i problemi che condividono con molti altri cittadini”, per citare il breve documento di presentazione del progetto indirizzato agli utenti. Il progetto si presentava nettamente come “politico”: quindi iniziale chiarimento su chi siamo noi e chi è stato Franco Basaglia, diffusione e spiegazione del testo della legge 180, discussione e coinvolgimento sulle finalità dell’operazione – diritti di cittadinanza, realizzazione piena della riforma, trasformazione della cultura, ecc. In diversi sedi, a Roma e in alcune altre città, siamo andati personalmente. Nella maggior parte dei casi, il contatto è avvenuto attraverso il documento ed eventuali successive comunicazioni telefoniche. Abbiamo contattato circa duemila realtà; si sono attivati un centinaio di gruppi. Il 12 maggio a Roma una giornata di seminario ha fatto il punto sulla consultazione, sui gruppi di lavoro nati in tutta Italia e sulla conferenza di settembre. Da giugno nuovo invio del documento, modificato e in forma di locandina, incontri con relatori e i coordinatori dei gruppi, contatti diretti con chi ne faceva richiesta, due riunioni per immaginare un dopo conferenza.

Questo percorso ha avuto alcuni momenti di particolare interesse. Alcune difficoltà di comunicazione, ad esempio : “ma tu i sogni li vuoi sapere o no?” mi sono sentita chiedere dopo qualche fraintendimento dal socio di una cooperativa che non riusciva a vedere l’oggetto del discorso – la psichiatria – né cosa mai lui potesse dire a riguardo. Generale poi, da parte degli operatori la tendenza a collocarci nella più rassicurante cornice della valutazione e della ricerca, salvo poi tradurre la nostra scelta di uno spazio di tipo politico nell’idea che intendessimo organizzare gli utenti psichiatrici in una associazione di categoria sul modello anglosassone.

Credo sarebbe utile riflettere sulla tendenza attuale che vede come percorso obbligato, per ogni nuovo soggetto che si affaccia sulla scena pubblica, la sua organizzazione in (associazione di) categoria che ha un suo posto nei vari tavoli istituzionali. Il problema non è tanto che in queste sedi i poteri rilevanti sono scarsi (ma hanno informazioni, e questo è un buon motivo per frequentarle) o che è facile essere istituzionalizzati o emarginati. Il punto è che due utenti nel consiglio di dipartimento, come due studenti nel consiglio di facoltà, fanno credere all’istituzione e ai suoi fruitori che siano risolti i problemi della comunicazione e della democrazia interna, le quali si giocano invece, è persino inutile dirlo, nelle pratiche quotidiane, che sono invece sottratte a ogni discussione e negoziazione.

Sono stati soprattutto degli operatori pubblici a leggere la nostra proposta in questa chiave di “politica di categoria”. Gli operatori del privato sociale l’hanno invece colta, spesso, come occasione per “dare voce a chi non ce l’ha”, secondo una retorica in voga che peraltro ignora che in una società democratica come la nostra non esistono persone senza voce, perlomeno in via di principio. Ci sono semmai persone cui la voce viene tolta – ed è per questo, ad esempio, che va abolito ogni manicomio. Ci sono anche persone la cui voce viene sistematicamente neutralizzata, sì che le loro parole diventano leggere, senza potere né senso: questo può accade facilmente in ogni angolo del welfare, cioè ogni volta che un operatore (pubblico o privato che sia) riceve la delega ad amministrare problemi personali e sociali. Per questo è pericolosa questa scorciatoia dei buoni, perché nasconde la trave che nel loro occhio c’è anche se sono giovani di buona volontà, spesso precari e malpagati e quindi non troppo distanti dai loro utenti (fatte le debite proporzioni: la comune origine sociale non ha mai impedito agli infermieri del manicomio di essere aguzzini degli internati).

* Docente di sociologia politica all’università di Sassari, presidente della Fondazione Franco Basaglia