Tempo di lettura: 4 minuti

Nel World Drug Report 2008 lo Unodc, l’agenzia Onu per le droghe, si lancia in una retrospettiva fino a cento anni fa nel tentativo di dimostrare che il sistema di controllo globale della droga è riuscito a spuntare almeno qualche successo. Conclude così il Rapporto: «Il sistema è riuscito a contenere il problema delle droghe illecite sia guardando a cento anni fa che al decennio scorso… (il controllo internazionale) origina dagli sforzi compiuti un secolo fa per rispondere al più grande problema di abuso di droga che il mondo abbia mai dovuto affrontare: l’epidemia di oppio in Cina». Il documento sostiene che «dieci milioni di cinesi erano dipendenti dall’oppio» e più oltre che «i tentativi della Cina di rispondere unilateralmente al problema si risolsero in un fallimento. Solo dopo che furono stipulati i primi accordi internazionali, fu possibile intravedere una soluzione».
Cercare di fare paragoni con la produzione di un secolo fa significa utilizzare una logica distorta: non solo il rapporto è fuori dalla realtà, ma tenta anche di riscrivere la storia: utilizzando una letteratura selezionata e omettendo accuratamente le fonti in contrasto. Va anche ricordato che gran parte dell’informazione sulla Cina è stata tendenziosa sin dall’inizio, poiché i missionari e le organizzazioni filantropiche cercavano di mobilitare l’opinione pubblica contro l’oppio.

La Cina è stata raffigurata come una vittima passiva degli interessi economici delle potenze coloniali, che l’avrebbero costretta ad aprirsi al commercio di oppio: col risultato di milioni di tossicodipendenti descritti come «esseri dalla voce flebile e dallo sguardo di morte negli occhi». Ma l’idea di una nazione dipendente e avvelenata dall’oppio non è sostenuta da alcuna evidenza e l’affermazione che «la Cina era un paese con un tossicodipendente ogni quattro abitanti», contenuta nel Rapporto 2008, appartiene al regno della fantasia.

Al contrario, gli studi mostrano che la maggioranza dei consumatori di oppio usava solo quantità moderate della sostanza ed era in grado di regolare sia la qualità che la quantità del consumo. C’erano (e continuano ad esserci) molti fumatori che usavano solo quantità limitate di oppio e solo in certe occasioni, che erano in grado di controllare il consumo, di ridurlo e anche di cessarlo se necessario. Esistevano anche diverse qualità di oppio, di diversa potenza. I pretesi problemi di dipendenza di massa in Cina sono un mito.

Per di più, il fumo d’oppio tradizionale era un rituale, che rispondeva a funzioni sociali e si svolgeva nelle teahouses più che nelle oscure e sudice fumerie d’oppio; oppure veniva offerto nelle case come segno di benvenuto agli ospiti, o nelle feste variopinte e nelle ricche cerimonie tradizionali. Le stesse fumerie in genere non erano luoghi segreti e deprimenti, spesso erano locali puliti dove si consumava anche tè e diverse qualità di cibi, che riflettevano una cultura variegata del fumo. Non esistono evidenze mediche che l’uso di oppio abbia avuto conseguenze negative sulla salute e sull’aspettativa di età della maggioranza dei consumatori. È senz’altro vero che il fumo ha prodotto tossicodipendenti e che di questi alcuni erano consumatori problematici. È importante però tenere presente che fra di loro c’erano anche molte persone che avevano cominciato a usare l’oppio per alleviare il dolore nelle malattie croniche o mortali. Oggi, questi soggetti avrebbero accesso ad altri prodotti, inclusi i farmaci oppiacei.

Comunque, ciò che più colpisce è che in Cina ci fosse una maggioranza di consumatori moderati e non problematici. «La produzione e il consumo di oppio erano per la maggioranza delle persone attività normali, non devianti» conclude R.K. Newman in un articolo del 1995 sull’uso di oppio nella Cina imperiale. «Non è tanto il fatto che esistessero dei tossicodipendenti a richiedere una spiegazione, quanto piuttosto il fatto che così tante persone fumassero moderatamente o non fumassero affatto, in una società in cui l’oppio era a buon mercato e largamente disponibile». Ricerche condotte dal Tni hanno mostrato che questo tipo di uso non problematico continua ancora oggi: ad esempio fra i commercianti di giada quando concludono un affare nelle zone di confine fra la Cina e Burma, oppure ai matrimoni o ai funerali di diverse minoranze etniche nella provincia di Yunnan.

Probabilmente, l’errore più importante del World Drug Report è presupporre che tutta la produzione di oppio fosse consumata dalla popolazione tossicodipendente. Lungi dall’essere un pericolo di primaria importanza per la salute, l’oppio in Cina è stato consumato nella regione per secoli, per ragioni mediche. In assenza di analgesici a buon mercato per la gente comune, l’oppio era spesso usato per combattere il dolore e anche come rimedio casalingo per tutti i generi di disturbi familiari come la diarrea, la dissenteria, la tosse, la bronchite, l’asma e contro i sintomi del colera, della malaria e della tubercolosi. Era anche un aiuto per superare la stanchezza, la fame e il freddo. «In un clima in cui la dissenteria era frequente e a volte letale, non c’era rimedio più efficace dell’oppio», scrive Frank Dikötter insieme ad altri ricercatori in uno studio del 2004.

Non c’è dunque da meravigliarsi che molte persone abbiano cominciato a usare l’oppio come automedicazione, specie come antidolorifico, come indicano diverse fonti. Quasi tutte le evidenze presentate nel 1893, di fronte alla Reale Commissione sull’oppio, concludono affermando che «il motivo più importante per cui le persone cominciavano a far uso di oppio era la ricerca di sollievo dal dolore e dalla nausea». Questi risultati concordano con quelli di studi odierni svolti in altri paesi. Il rapporto giapponese alla Commissione Internazionale sull’oppio di Shangai nel 1909 riportava che non meno del 93% dei fumatori di oppio di Formosa (l’attuale Taiwan che allora era sotto controllo giapponese) aveva usato per la prima volta l’oppio come medicinale. Uno studio del 1930 a Giava sulla disintossicazione concludeva che l’80% dei fumatori di oppio aveva cominciato ad usarlo per scopi medici. Lo stesso studio prendeva posizione contro la proibizione dell’oppio per la mancanza di disponibilità di altri antidolorifici.

Il sistema di controllo vigente ha limitato la coltivazione di una pianta dal grande valore terapeutico in una regione in cui molte comunità rurali che l’hanno tradizionalmente coltivata ancora non hanno accesso ai farmaci, o non ne hanno a sufficienza.

Il presente articolo è tratto da: TransNational Institute, «Rewriting history. A response to the 2008 World Drug Report», Drug Policy Briefing n. 26, giugno 2008.