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Leggendo gli articoli di molti giornali dopo la morte a Segrate di un giovane raver di 19 anni, ci si imbatte nelle solite generalizzazioni sulle droghe (tanto allarmistiche quanto imprecise) e analisi del fenomeno rave caratterizzate dalla profonda ignoranza dell’oggetto e da un moralismo indifferente, ben testimoniato da un articolo di Repubblica in cui Michele Serra definisce i rave «un rito stanco abbandonato alla deriva masochistica e autodistruttiva delle droghe».
Da queste analisi rimane fuori il tema dei bisogni sociali e di aggregazione non commerciale, a cui la scena rave risponde. Si vuole ignorare che il rave fa da contenitore a culture e linguaggi (non solo musicali) che non hanno altro luogo dove potersi esprimere. Non certamente un contesto distruttivo e nichilista quindi, ma un fenomeno vitale che presenta comunque una serie di problematiche legate agli eccessi (anche nei consumi di sostanze psicoattive) e a vari ordini di rischio (correlati spesso alle condizioni strutturali dei luoghi).
La risposta che sembrano auspicare molti commentatori, di ogni parte politica, è il contrasto sino alla chiusura di tali contesti di loisir notturno. Risposta semplice, ma che non risponde alla altrettanto semplice domanda che chiede se le persone e i bisogni che trovano spazio nei rave potranno avere cittadinanza e accessibilità in altri contesti. Credo di no. Sono sempre meno le possibilità di accedere a grandi raduni pubblici senza impattare in articolati meccanismi di controllo, di selezione (anche e soprattutto economiche) e in provvedimenti espulsivi. Il cambiamento nell’organizzazione di molti festival e l’inasprirsi dei meccanismi che regolano la notte e le aggregazioni nelle piazze urbane lo testimoniano, come anche l’indisponibilità delle amministrazioni comunali a individuare e rendere fruibili spazi per eventi giovanili autorganizzati.
Di fronte a questa situazione sono fondamentali due ambiti di azione. Da un lato c’è bisogno di attivare forme di autoregolamentazione sui temi del rispetto degli ambienti che accolgono le feste, della scelta di ambienti non rischiosi, della non sottovalutazione dei rischi legati al consumo di sostanze psicotrope, del controllo sulla presenza di spaccio organizzato e del controllo sugli episodi di violenza. Dall’altro lato c’è bisogno di sviluppare servizi appositi sulla riduzione dei danni e dei rischi e sulla tutela della salute dentro le feste.
Gli operatori sociali e le diverse équipe che hanno fatto esperienza in tali contesti, hanno svolto una funzione importante all’interno delle feste rave, garantendo interventi di informazione sulle sostanze, talvolta di primo soccorso e svolgendo un ruolo, strategico, di cerniera con le istituzioni e i servizi del territorio. Di fronte a un possibile atteggiamento repressivo nei confronti dei rave, il rischio più grande è che si verifichi, come già in passato, una frammentazione della scena e una sorta di movimento di fuga e di rifugio nel sommerso, così che feste sempre più piccole e irraggiungibili risulteranno assolutamente meno sicure e meno assistite da operatori e servizi. Insomma una entrata nel sommerso del fenomeno, con una crescita dei caratteri di “sfida” del rave che già esistono e che risulterebbero esasperati.