Tempo di lettura: 3 minuti

Quando fu approvata la cosiddetta legge Simeone-Saraceni i giornali e le televisioni si riempirono di grida di indignazione sulla “legge svuota carceri”, che nel giro di lì a poco avrebbe rimesso in libertà un numero immenso di pericolosi criminali assegnati al braccio della giustizia. Cifre da capogiro fecero la loro comparsa nei pronostici, statistiche sbalorditive furono impugnate da chi vedeva nella decisione del parlamento un preoccupante attentato alla sicurezza pubblica. A qualche mese dall’entrata in vigore della legge, diamo allora uno sguardo ai risultati prodotti, per vedere se tali preoccupazioni fossero o meno fondate. Abbiamo scelto, per raccogliere i nostri dati, un tribunale di sorveglianza tanto significativo quanto quello della Capitale, sotto la cui giurisdizione cadono le provincie di Roma e Latina, otto istituti penitenziari, per un totale di circa 4.000 detenuti. Ci chiediamo dunque come ha funzionato la legge in questi primi mesi di applicazione, presumibilmente i più affollati dalle richieste di sospensione della pena – come prevede l’assai discusso articolo 2 – a seguito dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale, e in vista di una decisione da parte del tribunale. I dati, aggiornati al 13 settembre scorso, ci dicono quanto segue. Le domande fino ad ora pervenute sono circa 1.200, delle quali 504 sono già state decise. Le rimanenti, anch’esse viste, sono state mandate in istruttoria. “Non si può pretendere che il magistrato decida della libertà di una persona sulla sola base dei pochi documenti che spesso costituiscono il fascicolo di un caso”, commentano dal tribunale. “Le circa 700 domande che stanno in istruttoria testimoniano della serietà di questo tribunale. Avrebbero potuto facilmente costituire altrettanti rigetti”. Quasi il 20% delle domande decise – 93, per l’esattezza – sono state accolte. “È una percentuale più che ragionevole”, dicono ancora, “e mostra il senso di responsabilità della magistratura di sorveglianza”. Secondo i dati recentemente forniti dal presidente del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, i detenuti usciti in sospensione dell’esecuzione pena con la legge Simeone-Saraceni sono, in tutta Italia, al 7 settembre scorso, 339, di cui 24 donne e 315 uomini. Chi si stupisce, lamentandosene o gioendone, dell’esiguità dei numeri, non può che constatare come le previsioni iniziali fossero completamente fuori bersaglio, mirate alla polemica e al sensazionalismo. Se solo si tiene conto del fatto che, a tutt’oggi, abbiamo in Italia circa 23.000 detenuti affidati in prova al servizio sociale, non si può non concordare sulla quasi irrilevanza degli effetti della legge Simeone. Una goccia nel mare delle statistiche, ispirata però a sacrosanti valori. Se andiamo poi a vedere i dati che interessano l’articolo 1 della legge, che riguarda non più il soggetto già detenuto, bensì colui che, da libero, si trova a dover eseguire una pena detentiva – articolo che, sempre stando ai soliti allarmismi, avrebbe dovuto impedire l’ingresso in carcere ad intere masse di persone -, scopriamo che anche qui la situazione è lontana dal poter intimorire anche coloro che si dichiaravano i più preoccupati. Infatti, nel periodo che va dal 30 maggio al 7 settembre 1998 – i mesi estivi, si badi, nei quali l’esecuzione delle sentenze sono, rispetto al resto dell’anno, fisiologicamente ridotte – sono entrate in carcere 23.240 persone, un numero rilevante a detta dello stesso Margara. L’allarme suscitato dalla legge Simeone si sta dunque rivelando privo di fondamento. La Simeone è una legge debole, moderata, che vuole senz’altro scrivere una pagina di civiltà nel nostro ordinamento, ma che ne pone solamente le prime basi. Nei confronti delle alternative alla detenzione, solo il primo passo è stato fin qui compiuto. Per una radicale scelta di evoluzione giuridica, occorrerebbe piuttosto ripensare il nostro sistema penale in maniera realmente coraggiosa. Occorrerebbe, come mai ci stancheremo di ripetere, affrontare alla radice il tema della decarcerizzazione, togliendo al carcere il suo ruolo di pena primaria e quasi unica del sistema. Non più di misure alternative bisognerebbe parlare, bensì di pene alternative alla detenzione, comminate all’origine come tali, e non invece scaturite dalla conversione di questa, e sempre su di essa stimate. Allora, forse, l’esercito dei preoccupati potrà gareggiare nel far sentire la propria voce. Ma un enorme passo di civiltà sarà stato compiuto.

*Associazione Antigone, Roma