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La comunità non è più salvifica, e se ne parla sempre meno sui mass media, ma conserva di sicuro un ruolo agli occhi degli utenti e degli operatori: quale? Per ragionare intorno a questo tema ci siamo rivolti a Andrea De Dominicis. Psicologo di comunità con una esperienza decennale presso il Ceis di don Picchi, De Dominicis è consigliere dell’Agenzia per le tossicodipendenze del Comune di Roma e insegna all’Università di Tor Vergata.
Il ruolo delle comunità terapeutiche si è trasformato nel corso degli anni.
In che modo?

È evidente un mutamento profondo. Venti o trenta anni fa i servizi erano scarsamente attrezzati. Negli anni ’60-’70 prevaleva l’intervento istituzionale psichiatrico, successivamente è prevalso quello medico, e poi per una serie di ragioni storiche sono nate, come espressione di diverse culture, le comunità terapeutiche. In quel periodo, mi riferisco soprattutto agli anni ’70 e ai primi anni ’80, esse hanno giocato un ruolo determinante nell’accogliere una forte richiesta di trattamento. Ovviamente poi, con il tempo, si sono avute delle trasformazioni. C’è sempre stata la sotterranea competizione tra modelli epistemologici e per l’assegnazione dei fondi, che è una classica dinamica avvenuta già negli Usa prima che da noi. Attualmente, in linea generale, è accettata l’idea che i servizi debbano funzionare in modelli integrati a rete con diversi tipi di opzioni. Questo processo, oggi a mio avviso sufficientemente consolidato, si è avviato negli anni ’90 con una serie di effetti positivi: un maggior dialogo tra gli operatori dei diversi modelli, e forme di cooperazione. In molti casi si assisteva alla competizione tra leadership, ma in realtà i livelli operativi collaboravano molto più di quanto fosse evidente. Oggi in linea generale le comunità terapeutiche, con le diverse sfumature e i diversi modelli di cui sono portatrici – socio-riabilitativo, educativo, clinico-psicologico – sono entrate a far parte delle reti dei servizi. Questo è, dal punto di vista pragmatico, indubbiamente un vantaggio.
Ha ancora senso attribuire un ruolo salvifico alle comunità?
Di fatto credo che oggi le comunità terapeutiche abbiano ben poco di salvifico. Sono piuttosto degli strumenti clinici all’interno di reti di servizi e svolgono un ruolo in tutte quelle situazioni in cui sono consigliabili delle temporanee separazioni dagli ambienti, dei processi di recupero più approfonditi. Credo sia questo il ruolo che occupano attualmente. Con i regimi di accreditamento, con la messa in rete dei servizi, oggi tutte queste strutture, in misura maggiore o minore, sono tenute a dichiarare i loro programmi, sono sottoposte al monitoraggio dei sistemi sanitari prima e socio-sanitari poi. Quindi i programmi, le procedure sono molto più trasparenti. Vedo però un rischio.
Quale?

Il rischio è che esse si trasformino in una sorta di cliniche, perdendo quella valenza educativa e critica che in alcuni periodi hanno avuto. La riconduzione della tossicodipendenza a mero fatto clinico – sia che lo si intenda dal punto di vista medico, sia che lo si intenda dal punto di vista psicologico o psicoterapeutico – a mio parere è un errore. Lo dico con grande franchezza: continuo a essere convinto, dopo trenta e più anni che mi muovo in questi ambienti, che la tossicodipendenza nella stragrande maggioranza dei casi è un problema di apprendimento e di socializzazione difettosa. Non è un problema di malfunzionamento né della personalità, né tantomeno di apparati più «hardware», organici, come in molti casi si cerca di dimostrare. Il rischio a mio avviso è che si perda l’occasione di utilizzare alcuni fenomeni sociali, peraltro drammatici e dolorosi, come occasione di ripensamento di una serie di questioni molto più profonde a livello sociale e che l’etichettamento di «malattia» sia una conveniente soluzione, alla fine, per un controllo sociale ben riuscito. In altre parole rischiamo la perdita della valenza comunicativa di questi fenomeni sociali che, se da un lato sono dei problemi, dall’altra parte segnalano a noi tutti – abitanti di queste società – l’esistenza di criticità che la rassicurante etichetta «malattia» ci solleva tranquillamente dalla responsabilità di capire meglio. La mia critica, anche in seno alle stesse comunità terapeutiche è proprio questa: avere abbandonato le domande sulle origini e sui fini, a tutto favore dell’efficienza – neanche, tante volte, dell’efficacia. Questo però è un problema culturale più ampio, che supera di molto le dipendenze.
Quali sono le aspettative di chi entra in comunità?
Dato che oggi queste reti di servizi – più o meno dinamiche, più o meno efficaci, efficienti e quant’altro – sono disponibili nella maggior parte dei territori, indubbiamente le aspettative di chi va in comunità sono molto diverse da quelle di «ultima spiaggia» o di «aver toccato il fondo» di venti o trent’anni fa, che erano caratterizzate da una percezione di sé estremamente più sofferente, più drammatica, totale. Piuttosto, esse sono una delle opzioni tra le quali gli utenti – che oggi sono dotati probabilmente di una consapevolezza molto maggiore – effettuano le loro scelte. Cioè sono sempre delle separazioni, anche se temporanee, dal contesto sociale, e questo in molti casi sappiamo tutti che funziona, è utile. Semmai, oggi il ruolo di «ultima spiaggia» spetta ai servizi di soglia più bassa, che svolgono il ruolo di sensori più periferici, più vicini proprio alla strada, con grandi e grandissimi problemi: tutti sappiamo lo scarso investimento in termini di supporto agli operatori, di loro formazione, di tenuta di questi servizi, che sono dei luoghi dove gli operatori si bruciano facilmente e di questo si parla molto poco.
Ma la formula del contesto residenziale chiuso, per cui si hanno magari degli ottimi risultati mentre gli utenti sono in comunità, non comporta forti rischi di ricaduta una volta fuori, in una situazione completamente diversa?
Avendo adottato dei modelli più sofisticati, i problemi di reinserimento sono molti diversi da quelli di anni fa. Le comunità sono in linea generale molto più aperte, più permeabili. Spesso, già mentre sono residenti, gli utenti svolgono una serie di altre attività. Insomma le comunità non sono più quei «piccoli monasteri», per parafrasare Contessa (riferimento al saggio di Guido Contessa Carceri, monasteri e fabbriche, ndr), cioè luoghi chiusi e inaccessibili. Sto parlando della stragrande maggioranza delle comunità, inserite nelle reti dei servizi. Con questo non mi riferisco a modelli che sono più autoreferenziali e autarchici, che però in molti casi dovrebbero essere chiamati «comunità di vita» e non «comunità terapeutiche» perché sono degli oggetti diversi.
A suo parere l’astinenza totale dal consumo di sostanze, il drug-free, deve restare un obiettivo irrinunciabile per le comunità terapeutiche, oppure l’obiettivo può essere adattato alle esigenze dei singoli?
Sulla irrinunciabilità credo che molto sia cambiato. Come si fa a stabilire il punto massimo a cui un individuo può arrivare in termini di educabilità, ad esempio nel momento in cui un maestro si impegna con i propri alunni in una classe? Etichettare un alunno come capace di arrivare a nove, mentre un altro è ritenuto in grado di arrivare a undici, se per un lato può sembrare un esercizio di principio di realtà, non impedisce al primo di poter arrivare anche lui a dieci o a undici? Il livello di esigenza deve sempre essere mediato e mitigato dalla capacità continua di riconoscere quello che l’altro è in condizioni di fare. Questo è un esercizio molto difficile, che richiede maturità, sensibilità e attenzione. Certamente, le comunità in linea generale si propongono come obiettivo il drug-free, come loro paradigma di intervento, perché puntano al migliore risultato. Credo però che con il tempo abbiano sviluppato una maggiore capacità di adattare l’intervento ai singoli individui, quindi di valutare anche quello che ciascuno è in condizione di dare, e fin dove è in condizione di arrivare.