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Non in Italia, certo, dove le discussioni pubbliche sulle politiche criminali e le scelte sanzionatorie si fanno ormai solo sotto botta di cronaca nera, sempre a chiedere più uno, secondo un antico vezzo dell’estremismo parolaio che ormai sembra essere appannaggio dei giornali e di forze politiche che si vorrebbero liberali e moderate; non in Italia, ma nel mondo che ci circonda si discute di alternative al carcere per i tossicodipendenti. L’ipotesi che va per la maggiore sembra essere quella di obbligare a percorsi terapeutici sin dal momento del giudizio i dipendenti da sostanze stupefacenti che altrimenti sarebbero condannati alla detenzione. Una ipotesi non nuova – a dire il vero – per l’esperienza italiana, che vale la pena quindi ripercorrere sommariamente, per individuarne opportunità e falle. In effetti, a ogni tornante repressivo, ad ogni giro di vite sui consumatori di sostanze stupefacenti, in Italia si è affacciato il tema delle alternative al carcere per i tossicodipendenti, secondo una caritatevole distinzione tra malati e criminali, gli uni meritevoli di cure, laddove gli altri siano meritevoli di pena. Così è stato al tempo, lontano, della legge Iervolino-Vassalli; così più recentemente con la sua modifica a opera di Fini e Giovanardi. Il bastone della pena alleviato dalla carota delle alternative terapeutiche per i malati. Funziona poi nei fatti questo modello binario? E in che direzione?
Con l’entrata in vigore della legge Iervolino-Vassalli, l’affidamento in prova a finalità terapeutica si afferma come modalità punitiva specifica per i consumatori dipendenti da sostanze stupefacenti. Se all’indomani dell’approvazione della legge Gozzini (nel 1987) i tossicodipendenti affidati al servizio sociale sulla base di un programma terapeutico erano 245, nel 1991 sfiorano i mille, nel 1995 arrivano a 4.120, fino a raggiungere le 8.589 unità nel 1997. Da allora – nonostante il numero complessivo delle misure alternative alla detenzione (e specificamente quello degli affidamenti in prova al servizio sociale) vada ancora aumentando, accompagnando il sovraffollamento penitenziario – tra il 1999 e il 2006 (anno in cui l’indulto sconvolgerà le statistiche dell’esecuzione penale, rendendo non più comparabili le esperienze precedenti con quelle successive), il dato degli affidamenti terapeutici per tossicodipendenti va assestandosi al ribasso, tra i 6 e i 7mila casi seguiti annualmente. Andandosi a stabilizzare nel tempo, gli affidamenti in prova terapeutici concessi dalla libertà (quindi completamente alternativi alla pena detentiva) si collocano intorno al 75% dei casi pervenuti e seguiti durante l’anno dai centri di servizio sociale (poi uffici dell’esecuzione penale esterna) dell’Amministrazione penitenziaria; gli altri provengono invece dal circuito penitenziario. Dunque il nostro sistema (non solo e non tanto penitenziario, quanto socio-sanitario complementare) sembra attestarsi intorno a una ricettività di circa 6-7mila tossicodipendenti che possono annualmente essere seguiti nei loro programmi terapeutici alternativi alla pena detentiva.
È efficace questa modalità terapeutico-trattamentale nel limitare i danni della carcerazione sulle persone dipendenti da sostanze stupefacenti? Non mi permetto – per manifesta incompetenza – di entrare nel merito dell’efficacia terapeutica di programmi trattamentali su cui grava la spada della carcerazione. Affronto il tema da un altro punto di vista, più grossolanamente quantitativo. Le alternative al carcere per tossicodipendenti sono state effettivamente alternative al carcere? Ne hanno ridotto la presenza assoluta e percentuale in carcere? E dunque, appunto grossolanamente, hanno ridotto la sofferenza propria della detenzione su persone in condizioni di dipendenza da sostanze stupefacenti? Nello stesso torno di tempo, tra il 1991 e il 2006, come è noto la popolazione detenuta è quasi raddoppiata (dai 31mila detenuti presenti al 30 giugno del 1991 ai 61mila del medesimo giorno del 2006) e raddoppiati sono pure i detenuti censiti come tossicodipendenti dall’Amministrazioone penitenziaria: 9.623 a giugno del 1991, 16.145 a giugno del 2006. Percentualmente, dal 29-30% del decennio ’90, si passa al 26-27% dell’ultimo periodo. Dunque non muta il quadro, con tutto ciò che ne consegue in termini di necessità di trattamento delle dipendenze in ambiente penitenziario. Come del resto è accaduto più in generale alle misure alternative alla detenzione nell’esperienza italiana: la loro crescita ha accompagnato, più che frenato la corrispettiva crescita della popolazione detenuta, risolvendosi – paradossalmente – in alternative alla libertà, più che in alternative alla detenzione, offrendo cioè maggiori possibilità di controllo istituzionale a un sistema penitenziario detentivo strutturalmente limitato rispetto alla domanda di carcerazione di massa che cresce nella nostra società.
È un giudizio liquidatorio, questo sulle alternative al carcere e sulle alternative terapeutiche per i tossicodipendenti? Non credo, anzi non credo neanche che sia un giudizio. Si tratta di alcuni fatti messi in fila: le alternative al carcere – in presenza di una forte domanda di crescita del controllo sociale istituzionale – non riescono a svolgere una funzione “anticiclica”; e, più specificamente, le alternative terapeutiche sembrano avere – nel contesto italiano, ma temo anche altrove – un limite di espansione legato alla ricettività del sistema socio-sanitario complementare e alla efficacia dei programmi trattamentali che esso riesce a mettere a disposizione del sistema penitenziario. Dunque, se si vuole efficacemente affrontare il problema della tossicodipendenza in carcere, bisognerà prima o poi intervenire sui suoi fattori di accumulazione, su quelli normativi come su quelli sociali, sulle norme criminogene come sulla trasformazione della domanda sociale di sicurezza in domanda sociale di carcerazione. Altrimenti non resterà che tentare di vuotare il mare con un bicchiere.