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Fu Richard Nixon , nel 1971, a dichiarare per primo "guerra alla droga". Si trattava allora di far fronte alla prima ondata di eroinomania diffusa negli Stati Uniti dai reduci dal Vietnam, di fatto vittime dei traffici organizzati dai generali alleati agli americani: Thieu, Ky, il laotiano Ouan Rattikone, ecc., con la benedizione della CIA. Dopo il disgelo gorbacioviano e con la successiva caduta del muro di Berlino, gli americani hanno dovuto trovare una sostituzione al Diavolo comunista. Ecco dunque i piccoli demoni del narcotraffico: Noriega, Pablo Escobar, Khun Sa o… il presidente della Colombia Samper.

L’ELENCO DEI BUONI E DEI CATTIVI
La versione americana dei "versetti satanici" è il rapporto annuale del Dipartimento di Stato sulle droghe (INCRS, International Narcotics Control Strategy Report), accompagnato dalla pubblicazione di tre elenchi di Paesi: quelli produttori o di transito che nella lotta contro la droga hanno compiuto sforzi sufficienti e sono quindi "certificati" (22 nel 1998); quelli che non hanno compiuto questi sforzi e sono "decertificati" (4), e infine quelli che dovrebbero essere decertificati ma non lo sono, nell’interesse superiore degli Stati Uniti (vital US international interests) (4). Infine, molti Paesi (tra cui il Marocco, la Turchia, la Bulgaria, ecc.), che di fatto rappresentano il gruppo più numeroso, non compaiono su nessuno di questi elenchi, in quanto gli Stati Uniti non si considerano minacciati dalle loro attività, ancorché nocive. Queste "certificazioni" non hanno un valore solo simbolico, poiché comportano la sospensione di gran parte degli aiuti che gli Stati Uniti destinavano ai Paesi in questione, e il loro voto contrario per qualsiasi credito o prestito proposto dalle grandi istituzioni finanziarie quali il Fondo monetario internazionale (FMI) o la Banca Mondiale. Inoltre, gli Stati Uniti si riservano la possibilità di imporre sanzioni commerciali a loro carico. I quattro Paesi certificati nell’interesse degli Stati Uniti sono: la Cambogia, la Colombia, il Pakistan e il Paraguay, mentre altri quattro figurano quest’anno sull’elenco infamante dei "decertificati": la Birmania, la Nigeria, l’Afghanistan e l’Iran. Per quanto riguarda la Birmania, si tratta effettivamente di un caso esemplare di narco-stato. Questo Paese è il secondo produttore mondiale di oppio (2350 tonnellate, secondo il rapporto americano, sufficienti a fabbricare tonnellate di eroina, pur tenendo presente che 500 tonnellate di oppio vengono consumate, sotto forma di fumo, dalle tribù locali). Una parte non trascurabile di questa produzione è sotto il controllo diretto dell’esercito, un’altra parte è controllata dalle minoranze etniche che hanno sottoscritto accordi con la giunta militare birmana per dividersi i profitti del narcotraffico. Uno degli ultimi accordi di questo tipo è stato concluso con il "re dell’oppio" Khun Sa, il quale, pur avendo ai suoi ordini un esercito ben attrezzato di 20.000 uomini, il 1° gennaio 1996 si è arreso all’esercito birmano. Da allora, le sue fabbriche di eroina sono passate sia sotto il controllo dei militari, sia sotto quello di alcuni dei suoi alleati o membri del suo clan. Khun Sa vive, circondato dalle sue concubine, in una lussuosa villa, mentre i suoi figli investono la sua gigantesca fortuna nello sviluppo della Birmania: compagnie di trasporti, supermercati, casinò. Mentre i militari birmani partecipano da tempo direttamente al traffico di droga, gli Stati Uniti hanno sostenuto a lungo, contro ogni verosimiglianza, che, sebbene questo Paese non facesse sforzi sufficienti per lottare contro la droga (cosa che gli ha valso la decertificazione), la produzione e la raffinazione avvenissero su territori che sfuggivano totalmente al controllo del potere centrale. La svolta nella posizione del Dipartimento USA risale solo al 1996. La spiegazione va probabilmente ricercata nel fatto che negli Stati Uniti la lobby favorevole a Aung San Su Ky (leader dell’opposizione democratica, condannata agli arresti domiciliari) è riuscita a farsi ascoltare, e la stessa Aung San Su Ky ha finalmente compreso l’opportunità di trarre partito dall’argomento droga per screditare i suoi avversari. Un’altra spiegazione della svolta americana è l’affronto inflitto dalla giunta agli Stati Uniti rifiutando di giudicare Khun Sa dopo aver chiesto la sua estradizione. Questa posizione del Dipartimento di Stato non impedisce affatto alla compagnia petrolifera UNOCAL, associata alla francese TOTAL, di continuare a lavorare alla costruzione di un gasdotto. Lo Stato americano dovrebbe opporsi solo a nuovi investimenti.; ma la UNOCAL finanzia negli Stati Uniti potenti lobbies a sostegno della giunta birmana… La Birmania è l’esempio meno discutibile di un Paese "decertificato", e sarebbe auspicabile che la comunità internazionale si mobiliti con più decisione per mettere al bando questo Paese che calpesta la democrazia e i diritti umani e pratica il narcotraffico su larga scala. La presenza della Nigeria sulla lista nera è già più discutibile. Questo Paese, infatti, produce ed esporta solo marijuana, in quantità peraltro modeste, a confronto con altri Paesi esportatori di hashish quali il Marocco o il Pakistan. È stato soprattutto il numero dei corrieri nigeriani arrestati in varie parti del mondo con piccole quantità di cocaina e di eroina ad attirare l’attenzione su questo Paese dall’inizio degli anni 1990. Numerosi indizi facevano pensare che, durante la dittatura del generale Babangida, vari alti ufficiali dell’esercito, con le rispettive mogli, fossero legati al narcotraffico. Tuttavia, dal 1993, il generale Abacha ha tentato di conferire al proprio regime un’immagine più presentabile, in particolare nominando alla testa dei propri servizi antidroga un personaggio incorruttibile, il generale Musa Bamayi. Certo, la corruzione continua a essere endemica in Nigeria, come in numerosi Paesi africani, e alti dignitari del regime continuano verosimilmente a essere legati al narcotraffico. Tuttavia, risulta che oggi le reti nigeriane operano soprattutto al di fuori del Paese, negli Stati vicini quali il Togo, il Benin e il Niger, in Sudamerica (in particolare in Brasile) e nei Paesi dell’Est, dove spesso fanno capo a ex studenti borsisti. Non si possono dunque imputare al governo della Nigeria le attività dei suoi cittadini; in base a un criterio del genere, numerosi altri Paesi, quali il Kenya, lo Zambia, il Marocco, l’Argentina, la Turchia, il Libano, la Romania, ecc., avrebbero molti titoli in più per essere decertificati.

RESPONSABILITÀ DEGLI USA IN AFGHANISTAN
D’altra parte, è assurdo inserire l’Afghanistan in questo elenco. Certo, questo Paese è il primo produttore di oppio del mondo (più di 3000 tonnellate); ma questa produzione si è sviluppata durante tutto il periodo della guerra dell’Afghanistan, e gli Stati Uniti hanno chiuso gli occhi, come ai tempi della guerra del Vietnam, sul coinvolgimento dei loro alleati mujaheddin in questo traffico. I taliban, che controllano oggi due terzi del Paese, non hanno fatto altro che ereditare questa situazione, dalla quale traggono profitto, come la maggior parte degli altri attori sulla scena afghana. Paradossalmente, decertificare l’Afghanistan significa riconoscere, contro ogni verosimiglianza, l’esistenza di uno Stato e di un governo, quello dei taliban. Ma gli Stati Uniti dispongono di un altro mezzo per far dimenticare le loro responsabilità nella produzione della droga in Afghanistan. In effetti, sempre nello stesso rapporto, sostenendo di fondarsi su osservazioni satellitari, gli USA già da vari anni sottovalutano l’entità della produzione, che stimano a sole 1300 tonnellate. Ora, secondo studi estremamente precisi condotti ogni anno sul campo, fin dal 1994, dal Programma di Controllo Internazionale sulle Droghe delle Nazioni Unite, si valuta invece che, a seconda delle annate, la produzione oscilli da 2300 a 3200 tonnellate. L’inclusione dell’Iran tra i quattro Paesi decertificati è quella che meglio tradisce i veri obiettivi degli Stati Uniti. L’Iran si trova sulla rotta degli oppiacei, che conduce dal Belucistan afgano e pakistano fino alla Turchia. I trafficanti attraversano regioni desertiche del Paese con convogli pesantemente armati (mitragliatrici, difesa antiaerea, ecc.). L’azione dell’Iran per intercettarli costa ogni anno decine di morti. Per frenare le infiltrazioni, gli iraniani hanno costruito tra l’altro muraglie su 800 km. per sbarrare le valli del Belucistan. Peraltro, il rapporto del dipartimento riconosce che "gli sforzi dell’Iran per lottare contro la droga sono vigorosi, anche se riescono a bloccare solo in misura modesta il flusso di sostanze illecite". D’altra parte, le pene applicate dagli iraniani sono severissime, e comportano la condanna a morte per i trafficanti e i consumatori recidivi. Non vi è dunque nulla che possa giustificare l’inserimento di questo Paese tra i "paria" della lotta antidroga. Interrogati in proposito, i funzionari del Dipartimento di Stato rispondono che la decertificazione dell’Iran è dovuta al suo appoggio al terrorismo islamico. Dunque, nessun rapporto con il problema della droga. Il caso dell’Iran sta a dimostrare, non meno del concetto di certificazione "nell’interesse degli Stati Uniti", che per la prima potenza mondiale la "guerra alla droga" costituisce uno strumento geopolitico.

PRIMA PANAMA, ORA LA COLOMBIA
L’invasione del Panama del dicembre 1989 è stato un evento precursore di questa strategia. Con il pretesto di mettere le mani su un trafficante di droga, gli Stati Uniti hanno agito per preservare i loro interessi nella zona del Canale, che nel 1999 dovrà essere riconsegnato alle autorità nazionali. In effetti Noriega, che lo si voglia o no, impersonificava il nazionalismo panamense; e nel gennaio 1990, per la prima volta, il governo del Canale doveva essere proposto non più dall’amministrazione americana, ma dal governo del Panama. D’altronde, oggi, sempre nell’intento di preservare la loro presenza nell’istmo e per controllare, dall’altro lato del confine, le zone rurali della Colombia ove agisce la guerriglia delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC), gli Stati Uniti propongono di farne la sede di un centro di lotta antidroga. Evidentemente, è in America latina che lo strumento politico della decertificazione è meglio utilizzato dagli Stati Uniti. Si nota, ad esempio, che se la Colombia è oggetto di sanzioni, il Messico figura al contrario nell’elenco degli alunni diligenti. Eppure l’amministrazione di questo Paese si è resa responsabili di incessanti scandali, fino alle più alte sfere dello Stato. Di fatto, l’esistenza del mercato nordamericano (NAFTA) impedisce agli Stati Uniti di assumere un atteggiamento critico rispetto a un Paese alla cui economia sono oggi così strettamente legati. Ciò equivarrebbe inoltre a riconoscere che l’integrazione ha incontestabilmente favorito il flusso della droga latino-americana verso gli Stati Uniti.

CHI È SENZA PECCATO…
In definitiva, è in discussione lo stesso processo della "certificazione". Si sono, infatti, levate voci sempre più numerose, anche tra gli alleati degli Stati Uniti, per contestare che un Paese si arroghi il diritto di decidere chi è sulla retta via e chi non lo è. E ciò a maggior ragione in quanto lo stesso censore non è certo esente da ogni "peccato": gli Stati Uniti sono un importante produttore mondiale di marijuana (sia pure per uso interno) e un importante territorio di riciclaggio. L’economia della Florida probabilmente crollerebbe, se le sue banche fossero private dei depositi di denaro sporco, in particolare colombiano e messicano. Vari Paesi dell’America latina hanno proposto che il processo della "certificazione", quanto meno nel caso del continente americano, sia affidato non più a un solo Paese ma all’Organizzazione degli Stati Americani. Ma, in questo modo, si cadrebbe forse nell’eccesso opposto, nella misura in cui quei Paesi, che in maggioranza traggono benefici dalla produzione e dal traffico droga, si autoconferirebbero certificati di rispettabilità. Semmai, dovrebbe essere applicata una procedura molto più semplice e giusta: semplicemente, porre la droga sullo stesso piano dei diritti umani e della difesa dell’ambiente, e inserire questo problema – senza che nessuno si arroghi il diritto di dare lezioni a chicchessia – nell’agenda di tutte le convenzioni, di tutti i trattati di carattere bilaterale o multilaterale. Con la stessa incertezza quanto ai risultati. Le violazioni dei diritti umani non sono scomparse dal pianeta in seguito alle pressioni in loro difesa, ma le cose starebbero peggio se questo aspetto non fosse contemplato nei rapporti diplomatici ed economici.

* Direttore dell’Observatoire géopolitique des drogues, Parigi