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Il tossicodipendente è perlopiù visto come un malato e la dominanza del modello malattia ha conseguenze importanti per il settore dei trattamenti e per i clienti. L’operatività del trattamento riposa sull’idea che la dipendenza abbia una eziologia biologica non ancora compresa interamente. Una volta attivata, la dipendenza è irreversibile e maligna, e l’unica speranza di arrestare la malattia è l’astinenza totale. Non essendoci una cura conosciuta, la persona colpita sarà sempre soggetta a ricadute, e questo spiega perché gli ex consumatori portano il marchio di «tossicodipendente» per molti anni dopo il loro ultimo episodio di consumo. Ciò significa anche che una persona colpita da questa malattia non potrà mai guarire, perciò i tossicodipendenti non sono mai recuperati ma sempre in via di recupero.
Il modello medico etichetta perciò il tossicodipendente e definisce le relazioni di potere e dipendenza tra cliente e terapeuta. Inoltre, implicitamente, dà la priorità a certe modalità di intervento. Più il trattamento è allineato alla cura medica convenzionale, più esso è congeniale alla comunità medica nel suo insieme. Di conseguenza, il trattamento residenziale è valorizzato e propagandato assiduamente; esso presenta infatti tutti i requisiti di mistica e di trappola dell’ospedale. Allo stesso modo, l’uso di una sostanza prescritta si addice alla concezione di come va trattata una malattia, e di chi deve trattarla. Dal 1964 in poi, il mantenimento metadonico è diventato la modalità più usata per il trattamento della dipendenza da eroina.
Questi approcci biomedici alla dipendenza continuano a cercare la chiave della malattia nella speranza che, una volta scoperto il meccanismo eziologico, si troverà una«pallottola magica» medicinale, un po’ come avvenne nel caso della tubercolosi dopo che fu accertato il ruolo eziologico del bacillo della tubercolosi.
Finché tale cura non sarà in produzione, tutto è un ripiego, comprese anche prestazioni ad alto costo come la riabilitazione in regime residenziale, il mantenimento metadonico, la disintossicazione, le comunità terapeutiche e la terapia drug-free non residenziale. Dati gli scarsi risultati di questi tipi di trattamento, la maggior parte degli operatori con un approccio biomedico nei paesi occidentali prevedono l’utilizzo delle cosiddette «terapie della parola». Anche se la moltitudine di approcci e teorie trattamentali rientranti in questa definizione ha ottenuto un qualche successo, essi continuano a essere visti con sospetto e sono spesso definiti mistici e antiscientifici.
Nonostante ciò, al medico che – in assenza di una cura biologica – ha bisogno di una via d’uscita, conviene avere a disposizione un qualche tipo di terapia della parola. Questo gli consente di liberarsi di un paziente affetto da una malattia che la medicina non può curare.
Secondo alcuni studiosi, i risultati ottenuti dagli approcci medici al trattamento dei tossicodipendenti sono risibili. Come dice Louis Berger: «Questa è la nuda verità circa le terapie più in voga per la tossicodipendenza legate al modello medico: primo, la gran parte dei tossicodipendenti non entrano nei programmi; secondo, di quelli che ci entrano, la gran parte abbandona; terzo, di quelli che completano i programmi, molti tornano presto ad abusare di droghe (ricadono); e quarto, le terapie solitamente impiegate – disintossicazione, counselling, trattamento riabilitativo in ricovero, terapia drug-free non residenziale, mantenimento metadonico, comunità terapeutiche – sembrano avere tutte la stessa efficacia (o piuttosto inefficacia)».
A prescindere dai risultati raggiunti, definire le dipendenze come un problema medico piuttosto che morale presenta il vantaggio di collocare il paziente nel servizio sanitario invece che nel sistema della giustizia penale. Mentre quest’ultimo destina risorse alla punizione dei reati commessi, il primo cerca di curare il paziente per il problema sottostante. I consumatori problematici di qualunque sostanza psicoattiva tendono a presentare una serie di problemi sanitari che devono essere curati separatamente. In particolare, i consumatori per via iniettiva possono soffrire di ascessi, deterioramento delle vene, endocarditi batteriche, tromboflebiti, epatite, Hiv. Queste condizioni sono tutte conseguenze della patologia sottostante, il discusso «complesso di dipendenza», che è spesso associato alla sostanza d’abuso.
Comunque, l’attribuire a una qualunque sostanza la capacità di indurre dipendenza solleva altrettanti interrogativi quanti quelli che cerca di risolvere. Dopo oltre mezzo secolo di ricerche e promesse di nuove scoperte provenienti dalla genetica e dalle neuroscienze, non ci siamo avvicinati alla scoperta di una eziologia biologica della dipendenza. Nel frattempo, la condizione stessa di dipendenza resta difficile da definire, impossibile da misurare, e varia da caso a caso. Essa offre una cortina fumogena ai consumatori problematici e a diverse categorie di persone autrici di reati, dà lavoro a molti professionisti e procura un «mito» su cui fondare il regime di controllo. Ma descrive anche un insieme di problemi comportamentali e fisiologici riferiti a certi modelli di consumo delle sostanze, sia illegali che legali. La dipendenza serve a giustificare le sanzioni – ad esempio, contro gli oppiacei e la cocaina – eppure si può applicare anche allo zucchero, alla cioccolata e a molti altri alimenti. È legata a forme di consumo sempre più problematiche, in una società consumistica non più caratterizzata dalla penuria, nonché a determinati modelli di comportamento.

  • Il presente articolo è tratto dal volume di Axel Klein (2008) Drugs and the world, Reaktion Books, Londra