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La definizione di malattia cronica recidivante è stata accolta con entusiasmo nell’ambiente dei servizi, poiché ha consentito di liberare la dipendenza da sostanze dalla gogna alla quale alcuni moralisti vogliono condannarla. Tuttavia, invece di rappresentare, come era giusto sperare, lo spunto per un approfondimento di questa strana forma di sofferenza, questa definizione si è trasformata nel nuovo paradigma del modello anatomo-fisiologico proposto da Claude Bernard e Xavier Bichat quasi due secoli fa.
Il problema è che il nostro cervello non è un organo uguale agli altri, deputato ad una singola funzione elementare, ma ha il compito di mettere in relazione il contesto (attraverso gli organi di senso), l’insieme degli organi ed il sistema motorio, per potere impostare in ogni momento l’interazione migliore a seconda delle circostanze esterne e delle condizioni interne, che si tratti di ottenere un beneficio o di evitare un pericolo per l’organismo.
Ed è per questo motivo che se per il diabetico la reazione allo zucchero è sempre la stessa e scarsamente sensibile al contesto in cui la persona consuma il suo pasto, la possibilità che il consumo (o il semplice desiderio) di sostanza si trasformi in dipendenza è fortemente legata alla storia ed al contesto del singolo individuo. Non possiamo ritenere casuale o secondaria la storia difficile e dolorosa della maggiore parte degli utenti che hanno più difficoltà ad uscire dalla dipendenza. Dietro ogni recidiva si profila sempre il riproporsi di una situazione di sofferenza e non il semplice richiamo di una qualche orologeria cerebrale autonoma.
Che utilità avrebbe un cervello che funzionasse in totale autonomia, impostando comportamenti che non fossero al servizio dell’organismo in ogni situazione della vita? Per spiegare la malattia cronica recidivante si fa riferimento a delle alterazioni delle funzioni cognitive superiori (e/o della memoria e/o del piacere) indotte dalle droghe, magari facilitata da una loro vulnerabilità geneticamente indotta. Ipotizzare delle strutture superiori geneticamente predisposte a leggere la realtà è, in fondo, riproporre al livello cerebrale il modello dell’anima di Platone, ma come conciliarlo con le straordinarie capacità delle nuove generazioni ad adattarsi ai progressi della tecnologia? Non di certo attraverso mutazioni genetiche da una generazione all’altra. Verifichiamo tutti i giorni, per altro, che la risposta ad una medesima situazione cambierà in funzione delle condizioni dell’organismo in quel momento e del contesto generale in cui essa si presenta.
La genetica e la microbiologia insegnano una cosa importante per aiutarci ad intravedere come si formano le nostre capacità di comprendere e di adattarci al mondo. È noto, ormai, che il genoma con i suoi 40.000 geni, nel caso dell’uomo, corrisponde solamente al 5% di quelli contenuti nel Dna di ogni cellula e che il 95% rimanente corrisponde in grande parte a geni di cui sappiamo ancora pochissimo, a parte il fatto che, su sollecitazione di messaggi chimici ricevuti dal citoplasma, attivano i geni codificanti affinché producano le proteine di cui ha bisogno la cellula in funzione delle sue attività. Nel caso delle cellule cerebrali, producano delle proteine per formare le sinapsi ed i mediatori per modificare i collegamenti tra di loro. Il fenomeno è di straordinaria importanza se Gerald Edelman, premio Nobel per la medicina nel 1992, stima per la sola corteccia cerebrale un numero di cellule intorno ai 10 miliardi ed 1 milione di miliardi di sinapsi. Poiché questo reticolare, lungi dall’essere fisso varia di continuo con le esperienze e la storia della persona, ne deriva che una parte del cervello è specifica della nostra specie ed un’altra è specifica dell’individuo.
Quindi dobbiamo ipotizzare un sistema di conoscenza o di acquisizione di capacità che si implementa (attraverso un arricchimento sinaptico) con le nostre esperienze, per cui se esse sono all’inizio assolutamente casuali diventano sempre più finalizzate mano a mano che accumuliamo conoscenze e competenze. Partendo dalle attività riflesse che sono delle reazioni non finalizzate, scatenate da variazioni delle condizioni fisiologiche e da alcune stimolazioni sensoriali, le esperienze controllate dalla madre acquisiscono senso, per il bambino, grazie ai loro effetti sulle sue condizioni fisiologiche. Ripetendo le interazioni che hanno prodotto i risultati migliori, sia per ottenere gratificazioni che per evitare minacce, il bambino costruisce il suo bagaglio di conoscenza o di competenze che si esprime attraverso la sua personalità.
Naturalmente si tratta di semplici tracce che richiederebbero un maggiore sviluppo ma anche un approfondimento sul piano scientifico, tuttavia sono sufficienti per comprendere che la dipendenza non è, contrariamente al modello della malattia cronica recidivante, una condanna annunciata alla nascita appena la persona entrerà in contatto con una sostanza. La dipendenza invece è la condizione in cui si trova un soggetto reso più sensibile agli effetti delle droghe dalla sua storia personale e che ripetendo l’esperienza tossicomanica, ha modellato progressivamente la sua rete neuronale in modo tale da trovarsi in difficoltà ad affrontare le situazioni della vita normale e molto più a suo agio nella vita marginale.
Queste considerazioni hanno delle implicazioni che non possono continuare ad essere eluse. La prima riguarda la politica generale nei confronti delle droghe che non può limitare il problema ad una semplice interazione pericolosa tra sostanze ed organismo. L’organismo ha una storia sociale e culturale e la sua sensibilità o vulnerabilità dipendono anche da essa. Le altre implicazioni riguardano invece il trattamento e l’organizzazione dei servizi. In primis, la diagnosi di dipendenza non può limitarsi a valutare la situazione tossicologica, ma deve indagare sia le abilità relazionali precedenti che quelle residue, così come il trattamento non può limitarsi ad un controllo del comportamento di consumo, ma deve mirare al recupero delle abilità.
La prognosi non è legata solamente all’impostazione del trattamento sostitutivo ma, oltre alle abilità pregresse della persona, alla capacità del servizio di prendersi cura di lui per riattivare o sviluppare le sue abilità. Infine, nonostante il farmaco sia spesso una urgenza e lo strumento di stabilità che consenta l’attivazione del processo riabilitativo, non vi sono trattamenti sussidiari ad altri, e tutto ciò che contribuisce a sviluppare le capacità e le competenze relazionali della persona merita sicuramente più attenzione di quanto concedono troppo spesso i servizi pubblici.