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Tre fatti ci aiutano a riflettere in modo disincantato sulle conseguenze poco conosciute ma concrete della legge Fini-Giovanardi.

  1. La Cassazione conferma l’ordinanza con cui un Gip di Voghera aveva rigettato l’istanza presentata da un detenuto tossicodipendente che intendeva sottoporsi a programma riabilitativo. La sentenza parla di “mancanza di un programma definito e realizzabile” e di “inaffidabilità della persona” per precedenti fallimenti in programmi di recupero. In sintesi, nella motivazione si richiede una rigorosa documentazione dei criteri adottati per la diagnosi di tossicodipendenza e una precisa indicazione prognostica. (Cassazione penale, sez. IV, sentenza 02/07/2007, n. 42704).
  2. Commissione Affari costituzionali, seduta del 28 novembre 2007: “Ormai la nuova frontiera della criminalità organizzata è l’alcol dipendenza, che è difficilissima da accertare e che consente di essere liberati e di eludere la pena fino a sei anni di reclusione. Questa situazione è dovuta, in parte, all’atteggiamento di superficialità di tutti i Sert che certificano uno stato di alcol dipendenza quasi fosse un attestato di servizio (naturalmente lo stesso avviene per gli stati di tossicodipendenza…)” (Cataldo Motta, Procuratore distrettuale antimafia aggiunto di Lecce).
  3. Aprile 2008: arrestati medici e agenti penitenziari a Santa Maria Capua Vetere per falsi certificati di tossicodipendenza a detenuti camorristi.
    La sequenza è chiara: richiesta di rigore, faciloneria certificativa, vantaggi per la criminalità. Questo è il quadro che si è creato ed è su questi elementi di fatto che si deve riproporre una critica radicale, razionale, non ideologica alla Fini Giovanardi. La criminalizzazione dei consumi e l’estensione del termine per l’accesso alle misure alternative (da tre a sei anni di pena) hanno solo due fruitori certi: la criminalità organizzata, che sfrutta a suo vantaggio il sistema paternalistico repressivo, e la componente cinica, votata al profitto, del sistema professionale delle perizie.
    L’impianto della legge è così demagogicamente seduttivo che nessuno osa sfiorarlo. Non lo ha fatto il governo di centrosinistra, non lo fanno i professionisti del settore, né le loro società scientifiche e tanto meno si sentono voci forti e chiare da parte del mondo della solidarietà. Le giuste preoccupazioni dei più critici si scontrano con la presunzione che l’opinione pubblica sia largamente consenziente nei confronti di una espressione muscolosa della lotta alla droga, parente prossima della propaganda che alimenta il bisogno di sicurezza e che incassa consenso attraverso la disposizione di strumenti rozzi, ma efficaci in termini di immagine. La droga fa male? Penalizziamo chi la consuma. Non vogliono smettere? Arrestiamoli, ritiriamogli il passaporto, la patente, in alternativa possono sempre scegliere tra carcere e cura. I familiari preoccupati tirano un sospiro di sollievo: finalmente possono coltivare il sogno di un contenimento in luogo sicuro ed amorevole (comunitario e terapeutico). Non è ancora il manicomio, ma si approssima al miraggio asilare con le solide sbarre del paternalismo repressivo ed amorevole.
    Con buona pace della sicurezza della collettività e dei diritti delle persone. Le persone libere e responsabili di queste paese battano un colpo alla porta della serietà scientifica e del buon senso.