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“La vergogna di essere uomo”: è questa la tonalità emotiva dominante di chi, anche solo per poche manciate di minuti, ha messo piede all’interno di quelli che il Testo Unico sull’immigrazione e le Circolari ministeriali applicative definiscono, eufemisticamente, “Centri di permanenza e assistenza temporanea”. Anche il luogo dove Walter Benjamin fu rinchiuso in Francia allo scoppio della guerra, in quanto cittadino tedesco, si chiamava “Champ des Travailleurs Volontaires”, ma i suoi abitanti non si trovavano di certo lì volontariamente.

Ora, il campo di Trieste, dopo le proteste, la manifestazione e gli scontri del 24 ottobre, chiuderà, per decreto della ministra degli Interni Rosa Russo Jervolino. Chiuderà perché non sta scritto da nessuna parte che i conflitti che si sviluppano dal basso non possano essere anche vincenti. Chiuderà perché centinaia di manifestanti, indossando le loro tute bianche, hanno messo in gioco i propri corpi affinché altri corpi potessero essere liberati. Chiuderà perché “sacrificare” il campo di Trieste significa, per chi sta al potere, salvare l’esistenza di altre simili strutture, disseminate in tutti i territori dell’Unione europea.

Testimoniare che cosa sia stato quel campo, testimoniare che cosa siano e che cosa significhino queste strutture è, per una volta, fondamentale. Permette infatti di restituire voce a chi non ha voce, innanzitutto perché recluso in una condizione di separatezza, condizione che lo priva della possibilità di comunicare con l’esterno, condizione peggiore addirittura di quella di chi è detenuto in carcere sulla base di una condanna penale o in attesa di giudizio. E, in questo caso, alla separatezza si somma la sospensione, quell’assoluta indeterminatezza che costituisce lo spazio ideale dove ogni arbitrio può collocarsi.

Nel tentativo di rispondere alla questione se oggi in Europa esistano dei Campi di concentramento, Giorgio Agamben ci ricordava l’origine di questi luoghi, pensati fin dall’inizio come “spazi d’eccezione”. Il loro modello sono le Zone d’attente create negli aeroporti francesi, anch’esse in attuazione degli accordi di Schengen. Lì vengono trattenuti gli individui che sono in attesa di conoscere se saranno o meno ammessi sul territorio francese. Funzionari e giuristi si erano ispirati alle zone Tax Free che si trovano nelle aerostazioni internazionali, zone in cui sono, per l’appunto, sospese le leggi dello stato che regolano le questioni fiscali e doganali. A imitazione di queste zone hanno pensato allora di espandere ulteriormente la “linea d’ombra” della sospensione del diritto e dei diritti, creando delle enclaves dove la legge è temporaneamente sospesa in attesa di decidere se essa si applicherà o meno ai soggetti reclusi. Spazi, dunque, dove non si è più cittadini del Paese di provenienza, ma non si è ancora – né forse si sarà mai – cittadini del Paese di arrivo. Chi si trova in questi luoghi è dunque, temporaneamente ma completamente, spogliato dello status di cittadino. Il che comporta effetti ambivalenti e contraddittori: da un lato, rende intollerabile l’esistenza di spazi ove il potere sovrano detiene soggetti senza-nome, senza-voce e senza-diritti; dall’altro, proietta nel cuore delle metropoli europee spazi che rivelano la crisi attuale e il paradosso costitutivo della cittadinanza.

Siamo noi stessi a essere radicalmente interrogati: nell’epoca della globalizzazione è il nostro statuto di bianchi, occidentali, cittadini di stati-nazione all’interno dell’Unione europea, e perciò titolari di diritti, che viene messo infine in questione. Se non fosse ancora una volta affrontata come “emergenza sociale”, l’intera questione potrebbe essere vista come una salutare scossa elettrica, lo stimolo a discutere fino in fondo e ad abbandonare finalmente il nesso tra nascita (quella natio radice di nazione) e cittadinanza; la spinta decisiva per sciogliere quel legame tra “sangue e suolo” che puntualmente riappare ogni qual volta la risposta allo sradicamento, allo spaesamento indotto e contestuale ai processi della globalizzazione si trasforma in reazione di chiusura, in tribalizzazione, in ricerca ossessiva della propria piccola patria. Balcanjia docet.

Ben al di là di qualsiasi buonismo multiculturalista o delle favolette sulla global society, che di questi processi non sono altro che il corrispettivo, è possibile assumere su di sé, senza alcuna linearità, la responsabilità di pensare e praticare altrimenti il destino meticcio che ci attende? È possibile costruire l’esperienza di comunità tra singolarità libere da appartenenze predeterminate, valorizzando all’interno e all’esterno di esse radici e identità culturali, come fattore di apertura e relazione con l’altro da sé?

Di tutto questo a Nord-Est stiamo discutendo anche nel contesto della stesura della “Costituzione del Veneto autonomo”, la carta fondamentale del processo costituente che i federalisti di questi territori stanno cercando di avviare.

La sfida che si intravede dentro questa battaglia per la chiusura in tutta Europa dei campi di Schengen è dunque la seguente: superare una volta per tutte lo Ius sanguinis, affermare la pienezza dello Ius solis, tornando a quei princìpi del diritto romano repubblicano, secondo i quali era a pieno titolo cittadino chiunque vivesse nella città rispettandone le leggi. Ed è questo lo spirito con cui saliremo il 12 dicembre sulle navi che ci porteranno a Valona.

* Centri sociali del Nord-Est, Consigliere comunale, Venezia